lunedì 27 febbraio 2017

CANDY, il glossario dei sentimenti d’Ilaria Clari



  
CANDY, il glossario dei sentimenti d’Ilaria Clari


 
My love is like a seed baby, just needs time to grow, acquerello digitale, china marrone, 17 aprile 2016


Se l'asse cede, se la
voce affonda,
c'è qui
nell'aria, la
parola-ramo
che ci tiene.

Elisa Biagini, Da una crepa


Legata profondamente al disegno ma al contempo, tanto, come lei stessa rivela, da intrattenere con esso un rapporto d’amore e odio, di necessità e avversione insieme, Ilaria Clari avverte scalpitante l’urgenza irrefrenabile di raccontare, attraverso le immagini, qualcosa della sua storia e, di riflesso, del mondo che la circonda.
La mostra CANDY mette in luce queste due costanti concatenate: il rapporto ambivalente col disegno e l’esigenza del raccontare a partire da sé.
Clari si riconcilia con il disegno attraverso la scelta di riprodurre digitalmente, utilizzando il computer, una tecnica analogica: l’acquerello.
Le caratteristiche dell’acquerello sono tante, ma lo ricordiamo principalmente per  l’esecuzione rapida; per la facile trasportabilità dei materiali; per essere stato utilizzato in passato, per studi di paesaggio, di animali, di guerrieri, di scene sacre e profane; per effettuare riproduzioni botaniche e scientifiche, dato che il mezzo può essere utilizzato all'aperto; ultimo ma non meno importante, per il senso di leggerezza che emana.
Digitalizzare l’acquerello significa, per Ilaria Clari, ponderare il gesto sfrenato della matita, effettuare una pausa, senza privarsi del senso della rapidità del tratto, né della sua fluidità.
Dopo aver imbastito il disegno con il computer, Clari stampa dieci copie per ogni opera sulla carta Modigliani color panna utilizzata per gli acquerelli. Le accade, però, di non riuscire a tenere a freno le mani: il titolo dell’opera, il suo nome e il numero di stampa li incide sul foglio a secco, e in alcuni casi compie degli interventi a china marrone o nera su alcuni particolari.
Ma scegliere l’acquerello, che ricordiamo è la tecnica utilizzata per gli studi, significa anche mostrare l’altra costante della sua ricerca, caratterizzata, come sottolineato dalle sue stesse parole, dal fatto:  “che ogni immagine racconti qualcosa della mia storia”.
La mostra CANDY è un glossario dei sentimenti.
Ogni lavoro è vocabolo della sfera affettiva che racchiude la relazione con sé e l’altro.
Interrogandosi e scoprendo a tutto tondo il corpo, le pulsioni, le paure, i desideri, i dubbi, le accettazioni, la goffaggine, Clari parte da se stessa e pone l’accento su cosa significhi essere tra, nella relazione tra due soggetti. “Chi sei tu, tu che non sarai mai me o mio/a, te che non conoscerò mai a fondo, e per il quale/la quale mai sostituirò me stesso/a”[1].
Una poetica della relazione, quella della Clari, incentrata sulla messa a nudo della carne.
Un mondo rosa tenue e zuccherino come le caramelle – candy -  che non sfocia mai nella leziosità, ma che protende verso l’ospitalità, l'accoglienza dell’altro, nel rispetto della differenza e delle differenze.

Francesca Pergreffi, febbraio 2017













[1]
                        [1] Luce Irigaray, L’ospitalità del femminile, Il Melograno, 2014







Do setting sex, acquerello digitale, china marrone, 11 maggio 2016

Love is melting, acquerello digitale, china marrone, 8 maggio 2016


My thundering sadness, acquerello digitale, china nera, 14 marzo, 2016


Fucking on the first date, acquerello digitale, 29 maggio 2016


Private oasis, acquerello digitale, china marrone, 28 febbraio 2016




Le opere di Ilaria Clari sono in mostra allo Spazio Meme, in via Giordano Bruno 4, a Carpi.
Dal 19 febbraio al 16 aprile 2017.

CANDY- Spazio Meme




CANDY- Spazio Meme


CANDY -Spazio Meme



lunedì 19 settembre 2016

Andrea Bruno: Paesaggio con nemico

Andrea Bruno: Paesaggio con nemico






L’agonismo e la guerra attraverso il fumetto, a partire dall’ antica Grecia: questi i temi di Paesaggio con nemico, opera inedita di Andrea Bruno, le cui tavole saranno esposte a Carpi, presso lo Spazio Meme  nel corso della mostra curata da Francesca Pergreffi e Filippo Bergonzini in occasione dell’edizione 2016 del Festival Filosofia Le tavole in mostra saranno accompagnate dalla realizzazione di una grande opera a parete.




L'Agonismo di Andrea Bruno

"Coloro che si difendono sono uomini, così come sono uomini quelli che attaccano"
Virginia Woolf

Quando penso alle opere di Andrea Bruno mi viene in mente subito il colore nero profondo in lotta per uscire dal bianco della carta; la china che si contorce e si contrae nello spazio del foglio, creando macchie informi, generatrici di corpi e oggetti. Chiazze di nero denso che, a suon di campiture piatte, si accostano tra loro dando vita all'immaginario del fumettista. Le tavole sono un climax decrescente di battaglia fra il nero della china e il bianco della superficie. Osservando da vicino i fogli, le linee delle forme diventano impercettibili, si dissolvono pian piano, dolcemente. Pur restando, l'iniziale agonismo fra il nero e il bianco, avvicinandosi ulteriormente va ad attenuarsi, ed entrambi i colori si fondono in un unico punto, delineando così i contorni delle figure.


   


Se per la sua esecuzione mi pare possa essere accostato a un 'macchiaiolo postmoderno', Bruno, per il suo modo di concepire la visone globale della tavola (scelta e ideazione del soggetto) non mi pare esagerato definirlo il Caravaggio dei fumetti. Egli predilige sempre tematiche dove traspaiono: il disagio, la fragilità, la marginalità e il conflitto esistenziale, sociale, politico. Bruno non compie un atto di denuncia esplicita, fatta di slogan, stereotipi, inquadrature tronfie e retoriche; si avvale piuttosto di rimandi accennati, di citazioni frammentate, dettagli non considerati, protagonisti minori e scenari atemporali e incongrui. Nelle sue narrazioni non compaiono esplicitazioni schiette e ridondanti, non gli occorrono slogan urlati a voce alta o eroi per rafforzare i concetti e, sviscerando le tematiche, farsi comprendere. Gli basta invece stravolgere lo sguardo, assottigliando il confine fra alto e basso (non è un caso la sua scelta di fare fumetti, considerati un'arte pop e per questo minore), ricercando e riportando la banalità delle cose. I fatti accadono e lui li ri-porta attraverso un'angolatura differente, composta da ambientazioni inesistenti ma che potrebbero esistere e che richiamano il reale, di frammenti letterari, silenzi, inquadrature cinematografiche delineate dal nero e da personaggi che esistono ma che potremmo non scorgere mai, dandoli per scontati poiché marginali
In "Paesaggio con nemico" Andrea Bruno tratta il tema dell'agonismo realizzando una storia breve in lingua greca antica. Il fumettista intraprende un gioco d'incastri nel quale, tra i frammenti di Eraclito, opliti, macchine abbandonate, graffiti, fotografie della guerra civile di Cipro del 1964, l'unico elemento visivo costante e dominante è il lirismo notturno. L'elegante composizione della tavola, che si dispone come una scenografia teatrale sullo sfondo della quale i protagonisti riecheggiano la ieraticità delle posture dei vasi vascolari, fa da contraltare alla brutalità del messaggio: l'agonismo della guerra civile. Una lotta perenne, indistinta, interna, che si differenzia dalle guerre 'tradizionali' poiché non vi sono più confini tra famiglia e stato, tra intimo ed estraneo: un agonismo trasversale, dunque. La guerra civile appunto. Che, come teorizza il filosofo Agamben nel saggio Stasis, "assimila e rende indicibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella stasis l'uccisione di ciò che è più intimo non si distingue più da ciò che è più estraneo".


Francesca Pergreffi, settembre 2016

martedì 7 giugno 2016

"Cosmo: genesi di un racconto a fumetti" mostra di Marino Neri

L’ esposizione, “Cosmo: genesi di un racconto a fumetti”, come si può dedurre dal titolo, ha l’intento di raccontare il background del fumetto “Cosmo” di Marino Neri, edito ad aprile del 2016, nella collana Coconino Cult dalla casa editrice Coconino Press. 

Dietro ad ogni libro a fumetti si cela una lunga ricerca su più fronti da parte dell’artista: il segno, la fisiognomica, lo studio del colore e del bianco e nero, l’ambientazione, la composizione formale della tavola, la sceneggiatura, i dialoghi, l’andamento rimico visivo e narrativo della storia. Con questa mostra si vuole mettere in luce il lavoro “dietro alle quinte”; focalizzare l’attenzione su come nascono e s’intersecano gli elementi segnici e narrativi, per scoprire com’è avvenuta la genesi del libro “Cosmo”. 


Le pareti dello Spazio Meme, di Carpi, con una grande installazione, diventano un ragionato patchwork visivo che comprende: brani di sceneggiatura; schizzi a matita; taccuini; fotografie di paesaggi; studi sugli ambienti; una scultura in lattice di Cosmo - il protagonista, che l’artista ha utilizzato per copiarne la fisionomia - ; tavole non inserite nella versione finale del racconto; studi sulle stelle e astri; libri da cui Marino Neri ha tratto le sue citazioni; studi per il passaggio dal bianco e nero dei disegni originali al colore delle tavole stampate sulle pagine del libro;  una selezione di tavole che si ritrovano nel libro e il libro a colori “Cosmo”. Guardando lo spazio espositivo, l’osservatore può conoscere in che modo Marino Neri ha affrontato le tematiche che hanno originato il libro: la Genesi, la Scrittura, la Citazione e l’Ispirazione, i Personaggi, Ambientazione. 






La Genesi: “All’inizio penso che a guidarmi sia una suggestione. Un’ immagine, una scena, un tono, forse sarebbe meglio dire un’atmosfera. La prima scena che ho disegnato ancor prima di lavorare alla sceneggiatura è quella in cui Cosmo si alza dallo scompartimento del treno per nascondersi in bagno. Mi è servita per tutto il tempo della costruzione del libro come riferimento a cui ritornare se sentivo di andar fuori strada. Ogni altra scena doveva avere una “temperatura” simile. Nell’immagine iniziale se ci ripenso c’è già tutto. Il passo successivo è quello di domandarsi se dietro a questa scena o immagine può esserci una storia.”

Sfogliando i taccuini, si può percepire come viene compiuta la tematica della Scrittura: “Per scoprire dove può andare la storia devo scrivere. La scrittura di un racconto a fumetti attraverso le tecniche della sceneggiatura però mi appartiene poco. Non riesco a visualizzare la storia se parlo di inquadrature, interni ed esterni. La scrittura serve per far fluire idee e personaggi; quindi si tratta più di un racconto. Il racconto è uno scheletro rafforzato, poi di quello che sarà il fumetto. Il lavoro che verrà dopo è quello di riadattare la scrittura al linguaggio del fumetto, a volte anche cambiando di molto ciò che ho scritto (spesso quello che funziona nella scrittura non funziona nel fumetto). Si tratta quindi di un doppio lavoro, ma non so fare altrimenti. Sarebbe molto più semplice visualizzare subito il fumetto attraverso il linguaggio tecnico della sceneggiatura. La costruzione di una storia è un lavoro di ricerca, quasi una spy-story nella narrazione stessa. Penso di lavorare contemporaneamente aggiungendo e togliendo, senza procedere con una idea ben fissa in testa se non quella della struttura della storia. L’importante è l’equilibro di tutti gli elementi messi in campo. Arriva un momento in cui, quasi per caso, le cose che sembravano disarticolate prendono una forma unitaria. Durante il lavoro al fumetto continuo a prendere appunti su piccoli quaderni. Mi concedo il lusso di modificare la storia anche all’ultimo se trovo che l’idea che sopraggiunta è più efficace. Questo dà al lavoro un senso poco programmatico ma mantiene una buona tensione con il racconto.



Leggendo i passaggi evidenziati nei libri collocati nel percorso espositivo, ci si può rendere conto di come vengano trattate le tematiche della Citazione e dell’Ispirazione: “Cosmo è un libro pieno di citazioni. Mi piace riempire i fumetti che faccio con materiale che nel frattempo leggo o guardo. L’idea delle stelle iniziali, che sono il coro e ci introducono nella storia, mi è venuta mentre riguardavo “La Vita è meravigliosa” di Frank Capra, anche se in quel caso le stelle impersonano dei Santi. Il racconto di Ismael sulle “teste” è ispirato al dialogo iniziale del “Woyzeck” di Georg Büchner. Mi piace pensare che ci sia un legame anche con un altro libro di Büchner, “Lenz”, almeno per quell’idea di “passeggiata dello schizofrenico” che sta alla base del libro. Dal drammaturgo tedesco a Werner Herzog, regista che amo molto, il passo è breve. Forse nella storia di Cosmo c’è qualcosa sia del ragazzo trovatello de “L’enigma Kaspar Hauser”che della “Ballata di Stroszeck” senz’altro per la struttura da “road movie”. L’idea dell’incessante dialogo fra Cosmo e il ragazzo ombra e degli esercizi di elencazione è lavorata su poche vignette di un vecchio fumetto di fantascienza “Vic & Blood” di Corben e Ellison… qui un cane telepate accompagna un ragazzino attraverso un mondo devastato da guerre. A dire il vero la struttura stessa di Cosmo potrebbe essere un po’ figlia di questo fumetto. Per la scena dell’assalto dei gatti, può essere che sia stato condizionato da una breve storia di “Kitaro” di Shigeru Mizuki… qui un’intera cittadina è stata scacciata da gatti indemoniati. Nella scena in cui Cosmo è rimasto intrappolato nella rete del pollaio c’è qualcosa del “Pinocchio” di Collodi, la parte in cui il burattino rimane preso dalla tagliola del contadino nel campo dove stava rubando l’uva moscatella.”.




Esaminando la scultura in lattice Cosmo e gli schizzi fisiognomici si può intuire il lavoro svolto per la creazione dei Personaggi, che avviene parallelamente al lavoro di scrittura. “La “psicologia” di un personaggio a volte viene caratterizzata prima attraverso il suo manifestarsi fisico. Così lo studio degli sguardi obliqui di Cosmo sopperiscono alla mancanza di parole che il personaggio avrà nel racconto. Dovrei fare più studi di “character design”. A volte, il perfezionamento di un personaggio avviene “in corsa”, qualche schizzo prima del lavoro sulle tavole. Ho sempre amato le pubblicazioni dei libri di Pratt che avevano all’inizio gli studi meticolosi dei personaggi, vestiti, armi e bandiere. Il tutto con una precisione da antropologo. Da bambino riempivo i quaderni di studi di personaggi, con appunti sulle loro caratteristiche fisiche. Per focalizzare meglio la fisionomia di Cosmo ho dovuto costruire un modellino tridimensionale, grazie al quale ho fissato il volto del personaggio. Chiunque faccia fumetti sa che una delle cose più difficili e tratteggiare i personaggi con un’anatomia costante per tutta la durata del fumetto. Ho calcato molto le caratteristiche fisiche di ogni personaggio, esagerando volutamente nei particolari. Penso che per il fumetto le cose debbano funzionare come per un certo tipo di teatro dove ogni movimento è esagerato per risultare più efficace, a scapito anche del realismo. Quindi il clochard ha la faccia tatuata, la ragazzina è rossa e ha le lentiggini, dei cacciatori uno è grasso e l’altro è magro (come in una classica coppia comica), il vecchio del cimitero d’auto è quasi cieco.







Per scoprire come venga esaminato il tema dell’Ambientazione, si possono osservare le fotografie utilizzate da lui durante il suo processo creativo. “Quando ho iniziato a disegnare Cosmo ambientando la sua fuga in una zona rurale di provincia, mi sono accorto che qualcosa non funzionava. Quello che sbagliavo è che ritraevo una campagna quasi spoglia da interventi umani. Così ho preso la macchina fotografica è sono andato in giro. Ho scoperto che in ogni singola inquadratura c’era qualcosa che “contaminava” la natura, un cartello, un traliccio della luce elettrica i fili del telefono, un guard-rail, un vecchio silos abbandonato. La commistione di elementi naturali e interventi dell’uomo mi ha colpito tantissimo. La campagna della pianura padana è ormai un ibrido, piante ed erbacce crescono di fianco e sopra stabilimenti abbandonati e piloni dell’alta velocità. Per questa ragione forse il paesaggio dove Cosmo fugge è diventato più comunicativo di un qualsiasi paesaggio che fa da sfondo ad una storia a fumetti, quasi come fosse un ulteriore personaggio. Mentre disegnavo Cosmo mi ripetevo spesso in testa il testo di una vecchia canzone di Lucio Dalla scritta da Roberto Roversi: “Il paesaggio è un’Italia sventrata dalle ruspe che l'hanno divorata.” La villa di Ofelia, dove Cosmo si nasconde, invece è una vecchia villa padronale nascosta in una selvaggia macchia verde che cresce nel mezzo di un campo. È una villa disabitata piena di atmosfera magica, a due passi dalla tangenziale ma allo stesso tempo proiettata in un altro mondo. Sono riuscito ad accedervi e a fare un po’ di foto di documentazione grazie ad Andrea Chiesi, amico pittore, che si è sistemato in un “bassocomodo” di fianco a questa villa. Nella parte in cui si manifesta il pensiero di Cosmo ho voluto liberamente visualizzare le immagini che potevano formarsi nella sua testa. Quando parla di animali, quindi, ho pensato di raffigurarli come fossero usciti da pagine di un’enciclopedia, perché ho pensato che proprio su quelle pagine un ragazzino di 15 anni poteva aver fantasticato. Ho sfogliato quindi vecchi “atlanti degli animali” e scaricato da Internet immagini di formazioni di nebulose e galassie.”


L’osservatore vagando attraverso questa scrivania visiva, pian piano potrà immergersi nell’atmosfera creativa di Marino Neri e nuotare nell’ universo di Cosmo.


Francesca Pergreffi e Marino Neri.

Sinossi del libro “Cosmo”
Cosimo parla pochissimo e non ama essere toccato.
Gli adulti lo chiamano “Cosmo”, per la sua passione per l'astronomia, e dicono che vive chiuso nel suo mondo. A 15 anni, però, è arrivato il momento di mettersi in viaggio, inseguire le stelle che si allontanano, incontrare altre solitudini…
Una piccola grande odissea on the road, tra periferie desolate e campagne, dove poesia e violenza esplodono improvvise.
Una storia delicata e piena di domande, dove macrocosmo e microcosmo dialogano incessantemente e anche gli astri, come gli umani, sottostanno alle leggi incomprensibili dell'universo.

Marino Neri è nato a Modena nel 1979.
Ha pubblicato i graphic novel Il re dei fiumi (2008) e La coda del lupo (2011), tradotti anche all’estero in diversi Paesi.
Nel 2012 ha vinto il premio “Nuove Strade” di Napoli Comicon e Centro Fumetto Andrea Pazienza come miglior talento emergente.
Ha tenuto mostre in tutta Europa e i suoi disegni sono stati pubblicati su numerosi quotidiani e riviste, da Internazionale a Le Monde.



venerdì 3 giugno 2016

Chiaccherata tra Francesca Pergreffi e Marino Neri su Cosmo - Libro edito ad aprile del 2016, nella collana Coconino Cult dalla casa editrice Coconino Press.



Francesca: Mi piace l’idea che nel racconto vi sia un’oscillazione costante tra il reale e il surreale. Vedo un’analogia con gli scritti di Lewis Carroll, dove mediante un slittamento di visione, il reale viene camuffato, e sfocia nel surreale. Trovo interessante che nella tua storia questo venga sottolineato da quelle che io definisco pause, che hanno una duplice funzione quella del coro greco e quella del glossario. Queste pause utilizzano degli elementi comuni, per esempio il “panettone con uvetta”, per descrivere delle “sensazioni esistenziali, infondendo un sentore di immaginifico e surreale. Esse amplificano anche la tua volontà iniziale di creare una storia per giustapposizioni d’immagini: narri tramite le illustrazioni.

Marino: Non so se il riferimento a Carroll sia giusto. Più che “surreale” userei il termine “straniamento”. Nella storia di Cosmo quello che fa percepire al lettore un qualcosa di “strano” è il fatto che alcuni personaggi reagiscono in maniera non “consona” a quello che il lettore si aspetta, creando situazioni e rapporti imprevedibili. (es. Ofelia non è spaventata dall’arrivo di un ipotetico ladro in camera sua, ma lo imprigiona all’interno di un armadio). Alcuni personaggi agiscono con “intenzioni” misteriose e questo crea un senso di incertezza nel lettore che è costretto ad abbandonare alcuni schemi preordinati. Questo gioca naturalmente contro la “plausibilità” della storia, ma penso che un lettore debba avere l’umiltà di seguire chi gli sta raccontando una storia, è una cosa che io da lettore/spettatore faccio spesso e con grande soddisfazione.



Francesca: Tu non assegni una moralità ai personaggi del libro, ma gli dai una valenza funzionale, per te sono elementi strutturanti della storia. In un’intervista hai definito Cosmo come una pagina bianca, assorbente, aggiungo io, lo capisco. Ma di fatto, e ritorno ad una mia riflessione più generale, credo che dietro ad ogni gesto creativo ci sia sempre una volontà, una scelta, magari a volte inconscia.  Quindi in questo frangente non parlerei di moralità, ma cosa c’è dietro ai personaggi?… ed estendo questo “dubbio” anche alle pause/cori greci.  
 Marino: Il lavoro sui personaggi che incontra Cosmo è un lavoro “a togliere” direi quasi d’ “astrazione” questo da a loro una valenza simbolica, il lettore si chiede se dietro c’è qualcosa d’altro per via di questa tendenza all’astrazione e il racconto acquista una sorta di trasparenza. Anche i dati scientifici che ho utilizzato per le “pause/coro” servono per dare un ulteriore senso di vertigine. È come guardare dentro un telescopio: le immagini per effetto dell’ingrandimento acquistano una forma nuova. Diventano altro. I dati scientifici snocciolati per darci più certezze danno un effetto contrario e ci catapultano in un mondo che non conosciamo più.


Francesca: Dire di più con meno.  Mi spieghi come lo attui? Lo noto già nella tua scarnificazione del segno e in una maggiore pulizia nella tavola

Marino: Per me il fumetto è sintesi. La mia scuola in fondo è quella più “classica”: quella che parte da Caniff e Sickles o Roy Crane, passa per Pratt, Micheluzzi, Toth fino ad arrivare ad alcune cose di Mazzucchelli o Jaime Hernandez (più spostati verso il cartoons). Tutti autori che pensano al fumetto come riduzione ai minimi termini del bianco e nero e al disegno come una sorta di “calligrafia”.



Sinossi del libro Cosmo:
Cosimo parla pochissimo e non ama essere toccato.
Gli adulti lo chiamano “Cosmo”, per la sua passione per l'astronomia, e dicono che vive chiuso nel suo mondo. A 15 anni, però, è arrivato il momento di mettersi in viaggio, inseguire le stelle che si allontanano, incontrare altre solitudini…
Una piccola grande odissea on the road, tra periferie desolate e campagne, dove poesia e violenza esplodono improvvise.
Una storia delicata e piena di domande, dove macrocosmo e microcosmo dialogano incessantemente e anche gli astri, come gli umani, sottostanno alle leggi incomprensibili dell'universo.



Marino Neri è nato a Modena nel 1979. Ha pubblicato i graphic novel “Il re dei fiumi” (2008) e “La coda del lupo” (2011), tradotti anche all’estero in diversi Paesi. Nel 2012 ha vinto il premio “Nuove Strade” di Napoli Comicon e Centro Fumetto Andrea Pazienza co-me miglior talento emergente. Ha tenuto mostre in tutta Europa e i suoi disegni sono stati pubblicati su numerosi quotidiani e riviste, da Internazionale a Le Monde.

5/6/16 inaugura la mostra "Cosmo:genesi di un racconto a fumetto" di Marino Neri a cura mia e di Filippo Bergonzini, allo Spazio Meme di Carpi

martedì 15 marzo 2016

CONVERSANDO CON ALEX URSO

Francesca: Com’è il tuo rapporto con le cose? E l’incontro e la scelta come avviene?

Alex: Bisognerebbe chiederlo alle cose, perché sono loro che mi cercano. Io ne sono attratto. È stato sempre così, mi giro intorno quando cammino, le trovo agli angoli della strada, scatole di legno, ceramiche, mucchi di cose che apparentemente non servono a niente mi appaiono come rivelazioni improbabili all'interno della città. C'è un aspetto romantico eccezionale, vorrei evitarlo ma è palese: il luogo in cui vivo diventa un inventario di cose: era così quando abitavo a Milano, ed è così oggi a Varsavia. Qui soprattutto, dove c'è un passato drammatico vicinissimo, i bauli delle vecchie case in questi anni si sono svuotati di ricordi dolorosi, oggetti, foto, che riempiono i mercatini delle pulci. Basta farci un giro per rimanerne folgorato. Interi album di famiglia venduti per pochi soldi, che racchiudono una bellezza sconfinata, e una purezza inestimabile. C'è qualcosa di spietato anche in tutto ciò, perché a volte vorrei comprare tutto e riportare indietro questi oggetti a chi li ha smarriti o anni fa li ha venduti per necessità e ora ne rimpiange la perdita. In questo senso dico che l'oggetto nasconde una storia segreta e personalissima, il cui passato può essere solo lontanamente immaginato: la tentazione di ricostruire il puzzle che c'è dietro è alta, si gioca con la fantasia, ma la carica poetica che quella “cosa” conserva è presente, potente, eppure illeggibile. L'oggetto diventa, dunque, qualcosa di sacro, ed è una questione che dal punto di vista antropologico è sempre stata studiata. Dal punto di vista strettamente poetico invece, le cose diventano dei residui del mondo passati di mano in mano come una staffetta infinita. In questo passaggio conservano la storia e l'esperienza degli individui, accumulandole al loro interno, e caricandosi di un'aura magica. Ed è quest'aura che mi chiama. Ricordo una citazione di Charles Simic, “la banalità è miracolosa se vista nel modo giusto”. E proprio questa banalità mi folgora, illumina tutto, basta notarla quando ti cerca.

Senza titolo #2, serie Impossible Nature, 22 x 17 x 10 cm, 2015




Francesca: Nelle interviste fai distinzione tra readymade e oggetti sottratti al quotidiano perchè?

Alex: Mi piace la parola “oggetto” perché conserva una certa neutralità, che invece non ha più il termine “readymade”, il quale si pone su un piano ben diverso, che è già un piano artistico. Lo stesso Duchamp, che dell'utilizzo di questa parola nell'arte fu il primo, inizia ad usarla ben più tardi della creazione dei suoi primi oggetti seriali. In principio, piuttosto, c'era solo il gioco e, annesso ad esso, la variante della casualità. Ed è questo che mi piace conservare, perché proprio nell'assenza di una definizione precisa si crea interesse e sorpresa. Tornando a Duchamp il termine “readymade” viene attribuito a questi oggetti solo dopo il suo viaggio in America del 1915, quando insomma avverte il bisogno di dare un nome ad opere che deviano da ogni definizione (“la parola readymade sembrava adattarsi perfettamente a quelle cose che non erano opere d'arte, che non erano schizzi, che non erano nessuna delle espressioni usate a accettate nel mondo dell'arte”). In questo modo l'artista confeziona questi frammenti del quotidiano dentro una nomenclatura definita, che ne congela la bellezza dando all'atto di sottrazione dal mondo una parvenza assai più fredda e programmatica. E questo, al momento, è agli antipodi di quello che voglio fare con i miei lavori: voglio che le cose parlino, non che emanino indifferenza visiva, voglio che siano riconducibili al mondo e che conservino una valenza estetica viva. Inoltre, generalmente, i readymade sono oggetti estratti dal quotidiano e trasportati in un contesto nuovo. Ma spesso questa traduzione è completa, l'oggetto “fatto” viene conservato nella sua integrità e, esclusi piccoli interventi, rimane intatto al momento di lasciare il mondo per riscoprire una poesia nuova. Voglio dire che fisicamente l'oggetto resta tale, il cambiamento è squisitamente concettuale, ed è dato dall'artista che interviene, spesso, solo su un piano mentale. Nel mio caso, invece, questi oggetti vengono integrati dentro l'opera, oppure attorno ad essi si crea un'opera che prende per mano questo frammento di mondo conducendolo verso significati nuovi. C'è insomma una funzione attiva dell'oggetto, che si fa carico del suo senso profondo decidendo di conservarlo adattandolo ad un contesto diverso. Il mio intervento è decisivo, e non mi limito solo a tradurre questo passaggio dal piano originale dell'oggetto a quello letterario, ma intorno ad esso scrivo una narrazione. E questa narrazione dà allo stesso valori nuovi e inattesi. Insomma, nel mio caso, l'oggetto non è fine a sé stesso. Piuttosto utilizzo la parola “assemblaggio”, perché richiama a questa stratificazione di elementi, di frammenti di mondo che si sommano e
creano una storia. Non mi chiudo dunque nell'ambito della scultura, ma mi apro a tecniche e linguaggi differenti, dalla pittura alla scultura all'installazione. Il risultato, alla fine, è sì un oggetto, ma l'oggetto non è la finalità, quanto il pretesto per raccontare altro. Ogni mio lavoro è una somma di addendi in cui il minimo comune denominatore per ognuno di essi resta comunque, sempre, il mondo.


Ziervogel #1, serie Impossible Nature , 33 x 24 x 11 cm, 2015 

Francesca: Tu hai detto: “gli oggetti devono parlare da soli e dicono più cose possibili senza necessariamente il mio controllo”; come fai ad evitare il controllo dal momento che li scegli e li inserisci in contesti creati da te con minuzia? Spiegami; quando avviene una scelta e una collocazione, non vi è un già una forma di controllo?

Alex: Il controllo è necessario, ma è conseguente. Non so neanche se la parola controllo sia adeguata, perché al momento della creazione dell'opera non so con certezza dove mi sto dirigendo: mi prendo una responsabilità, che è quella di ascoltare la carica dell'oggetto e pilotarla verso territori diversi. Sopra di essa, come una stratificazione di storie, apporto la mia esperienza. Le cose si sommano. Ma è ovvio che stiamo rimanendo in una sfera fortemente romantica, dove potrei continuare a divagare per ore. Quello che vuoi sentirti dire è che sì, l'artista fa il tutto, ed è logico che in parte sia così. Eppure lascio sempre all'oggetto su cui decido di lavorare ampia presenza all'interno dell'opera. C'è una interazione tra me e lo stesso. Non mi prendo la briga di descrivere quell'oggetto definendolo sotto una veste inedita, ho molto rispetto per la sua storia. Piuttosto ad essa sommo la mia esperienza, la mia poetica, un dettaglio, una narrazione che nasce spesso in modo fortuito e si incastra naturalmente al tutto. Mi piace inoltre sempre lasciare ampio spazio all'interpretazione. Per questo l'oggetto parla solo. E per questo dico che il mio controllo non è necessario. Mi riferisco soprattutto alla lettura finale del lavoro. Ritornando al readymade, infatti, l'artista diventa artefice concettuale, che inquadra il valore lirico dell'oggetto, definendolo sotto una nuova veste artistica: da oggi tu non sarai più un orinatoio, ma un'opera. Io non faccio questo. La foto di una famiglia, una bambola di porcellana, un pacco di fiammiferi rimangono tali, li vedi nella mia opera e sai che vengono da altrove. Non hanno una presenza arrogante, come spesso le sculture readymade hanno. Si mostrano come elementi autonomi, frammenti di un quadro più grande che è quello dell'opera, la cui interpretazione ad ogni modo li coinvolge. Sono un valore aggiunto.

Non toccare desiderio, serie Impossible Nature,  36 x 23 x 15 cm, 2015


Francesca: Percepisco uno stridore quando si parla di assenza di guida e di responsabilità nella creazione… credo che le azioni contengano sempre delle intenzioni, più o meno consapevoli, vi è una responsabilità nel gesto. Anche Duchamp quando affermava che i suoi readymade erano una fuga, uno stratagemma per liberarsi dalle responsabilità, avverto qualcosa che non mi torna… Vi è un fare comunque e quindi responsabilità, e forse nel caso dei readymade è ancora più profonda poiché è un conducente di visioni amplificato. Che mi dici a riguardo?

Alex: Personalmente il quadro d'insieme non mi è mai chiaro all'inizio. È capitato raramente che io cercassi insistentemente l'oggetto per costruirci conseguentemente un'opera. In quei casi sì, c'era un'intenzione definita nella mia mente che in modo fortuito, ma voluto, si è avverata. La serie Impossible Nature, per esempio, è nata così: cercavo un libro sui pappagallini, perché volevo realizzare dei boxes tributo a Joseph Cornell. A Berlino, in un mercatino delle pulci, ho trovato esattamente quello che cercavo: un vecchio libro illustrato sui volatili. È stato un oggetto desiderato, e raggiunto. Poi, dopo tre boxes tutto si è sviluppato in modo amplificato, i tre boxes sono diventati trenta, ognuno creato in modo differente, sotto stimoli differenti. Però, generalmente, non ho delle intenzioni definite. Spesso mi trovo a raccogliere cose o a conservare oggetti convinto che un giorno mi torneranno utili. Li vedo e vorrei non lasciarmeli scappare. Ma non posso insistere e lavorarci immediatamente sopra, se davvero in quel momento non mi sento pronto a creare un'interazione con essi. Così li accumulo: ho riempito stanze di cose, tutte in ordine, tutto lasciato in attesa al proprio posto. Lascio questi oggetti lì, a fermentare, aspettando di sentirli davvero miei, nell'attesa di trovare una miccia che inneschi un cortocircuito e inventi una storia: può essere che il suggerimento arrivi dall'oggetto stesso, che guardandolo e riguardandolo mi indichi qualcosa, o può essere una vecchia foto di un libro che rappresenta una figura che, per qualche motivo, mi ricorda quell'oggetto. A quel punto lo prendo dallo scaffale e inizia il gioco. Parli di responsabilità. La responsabilità nel fare arte ad ogni modo è costante. Duchamp ha costruito la sua produzione su questa falsariga del dire e negare, e la sua ricerca vive nei paradossi, per cui interpreto le sue affermazioni con fascino, ma mai troppo alla lettera. Sono convinto che sapeva cosa volesse realizzare con quelle cose. Ogni artista avverte, più o meno consapevolmente, questa responsabilità. È tutta una questione di quanto sei davvero abile nel mettere a fuoco il futuro della tua ricerca, e questo varia da artista ad artista. Dipende dall'approccio che l'artista ha con l'arte stessa, e dal rapporto che l'individuo dietro l'artista ha col mondo. Io personalmente sento una responsabilità nella creazione, nel senso che avverto un'urgenza. Ma tutto procede per tentativi. Non mi è chiaro il motivo, c'è una spinta dal basso verso l'alto che mi invita a muovermi, ma all'inizio è tutto sfocato. Gli artisti concettuali per definizione affrontano il percorso in senso opposto. L'idea è precostituita, e l'artefatto una conseguenza. Per me è spesso il contrario. Vedo qualcosa che diventa uno stimolo e lo stimolo lascia spazio al processo creativo. È un camminare a gattoni, e c'è sempre un rischio alto di fallimento. Questa paura tiene acceso il tutto. Se fosse chiaro dove sto andando non avrei troppo piacere a mettermi in gioco.

Object of our affection, serie Impossible Nature, 18 x 12 x 17 cm, 2014


Francesca: Che importanza dai alla forma e al suo equilibrio?

Alex: Moltissima, a volte vorrei anche meno. Vorrei essere più libero di assecondare la forma e la figura per aprirmi a qualcosa di più astratto. Sento che mi ci avvicino, ma poi ricado nel gusto del bello. Ho piacere a creare delle opere che riflettano una certa armonia compositiva, e nei lavori sulla natura questo era anche necessario alla definizione stessa del progetto. Il progetto sulla natura nasceva proprio dalla volontà di accentuare il carattere decorativo della natura, a costo di sfiorare il kitsch. Sono attratto dagli equilibri formali. Questo non dovrei dirlo, ma in fondo non c'è nulla di male: qualche anno fa è morto mio nonno, l'impresa di pompe funebri ha creato nel salotto della sua casa una sorta di teatro greco, con la bara lunga al centro, un sipario rosso (o viola?) dietro, e poi le sedie che si aprivano a scalare ai lati. Una composizione perfetta, e che ha contribuito a far sentire le persone parte del momento, perché ha accentuato l'aspetto patetico confezionandolo in modo formalmente perfetto. Io ero affascinato da questa cosa, continuavo a pensare a come le persone abbiano bisogno sempre di ritrovarsi in una dimensione definibile. Si rompono confini, internet unisce territori, si scoprono pianeti e la dimensione temporale si frantuma, ma la composizione di un quadro rimane una certezza, qualcosa che conosciamo e che riconduce lo spettatore a un piacere, a un gusto. A qualcosa di consolidato, di accettato. Non vuol dire che questo mi piaccia o no, non ti dirò se in futuro potrò farne o meno a meno, ma credo che sia una tentazione affascinante. E finora ci sono cascato in pieno.

Escape from picture (after van Ruisdael), serie Impossible Nature, 38 x 25 x 5 cm, 2014 


Francesca: Che rapporto hai con il caso, lo ricerchi o lo accogli semplicemente?

Alex: A questa domanda non so risponderti, credo di aver cambiato idea negli anni. Quando sono entrato in Accademia -ed è una cosa che ho deciso di fare tardi- qualcuno ha iniziato a identificare le mie cose con una certa attitudine dada. Ho pensato, perché no? Eppure, a differenza degli autori dada, non tratto il caso come un principio compositivo, non lancio un dado e la composizione esce fuori come per magia. Ciò che definisce l'opera è il mio gusto; il modo in cui sommo questi elementi (pur casuali) è comunque dettato dal mio senso estetico. Personalmente, c'è qualcosa che mi affascina ma mi respinge riguardo alle dinamiche dada: non mi riferisco solo alle arti visive, ma anche alla letteratura di stampo dada. E’ qualcosa di miracoloso per quel tempo, funzionale in quel periodo storico, ma poi mi domando: dov'è in tutto questo l'autore? Mi piace il fattore “sorpresa”. Ma dada esaspera tutto, e la sorpresa diventa provocazione. C'è una emancipazione lirica che dà troppo peso alla fatalità. Il caso rappresenta l'ingrediente fondamentale, che praticamente rende l'artista solo un mediatore. Ne limita la presenza, ne riduce la portata. Per questo ti dico che il caso lo accolgo. Credo che, nell'arte come nella vita, il soggetto abbia una forte valenza decisionale. Le cose capitano, ma sta all'individuo saperle interpretare e farne uso nell'esperienza. Eppure, se ci penso, spesso il caso lo cerco. Ma come fai? Più il caso lo cerchi e più non lo trovi. Voglio dire, nel momento in cui mi accorgo di sperare che il caso mi colga, che possa incontrare ancora quella ragazza che per caso, appunto, ho visto un giorno sull'autobus, ecco che questo non succederà. La incontrerai, forse, ancora, quando meno te lo aspetti. Perché la magia si rivela tra le pieghe del quotidiano, è un imprevisto. Se fossi lì a cercarla, non si tratterebbe più di magia, ma di un evento che arriva come causa di una intenzione. E allora si rompe l'incanto.


 Senza titolo #5, serie Impossible Nature,15 x 19 x 4.5 cm, 2014



Francesca: Avverti una necessità di andare incontro allo spettatore, come mai? Non ritieni che in ogni forma di visione vi sia un incontro, o comunque una possibilità?

Alex: No, spesso l'incontro con l'opera è una possibilità preclusa allo spettatore. Appunto, guarda, stiamo parlando di “spettatore” che è un termine di derivazione teatrale e poi preso in prestito dalla televisione. In entrambi i casi c'è una funzione passiva. Sono situazioni che relegano il pubblico alla funzione di referente dello spettacolo, inteso come intrattenimento: il dialogo tra messa in scena e destinatario è unidirezionale. Nell'arte visiva l'osservatore, che è un termine che preferisco perché rimanda più alla possibilità da parte dell'individuo di analizzare, di conoscere meglio ciò che gli è davanti, questa funzione “attiva” non è sempre scontata. Ovvio, dipende molto dallo stesso osservatore e dalla sua abilità nel sapersi mettere in gioco, ma è pur vero che l'arte contemporanea, soprattutto quella più concettuale, spesso esclude il pubblico. E al pubblico va bene così, in fondo comporta meno fatica. Ad ogni modo a me piace che i miei lavori pongano chiunque decida di stabilirci un dialogo, nella condizione di potersi muovere intorno, entrare dentro per capirne il senso. È la tridimensionalità: devi sporgerti di lato, chinarti in avanti, affinare lo sguardo e accorgerti di un dettaglio nascosto dietro. Se aspetti che l'opera ti arrivi sola e ti parli non succederà. Quindi è un incontro non solo in senso lato, metaforico, ma anche nella sua accezione più diretta: la lettura del lavoro è condizionata da questo gioco di ruoli. Lo spettatore è chiamato a dialogare anche fisicamente col lavoro. Che poi ci sia comunque una forte dose di narcisismo nel quale l'opera si pone come qualcosa di inarrivabile è ovvio, perché sono lavori sotto una vetrina, su un piedistallo. E in fondo l'arte è questo (esclusa forse solo quella relazionale): c'è sempre una certa dose di vanitas. I miei lavori amano lasciarsi ammirare. È come guardare delle puttane dietro le vetrine di Amsterdam. Diciamo che lanciano un'esca, se ne sei attratto abbocchi.



Variazione barocca #2, serie Impossible Nature, 20,5x20,5x7cm, 2014





Francesca: Rifiuto della bidimensionalità… motivo?

Alex: Ho sempre cercato delle strade diverse. La pittura è un linguaggio così consolidato, è un rituale definito, magnifico, ma definito, che in qualche modo obbligo l'artista a rimanere entro percorsi già battuti. Ho una formazione pittorica, ma ogni volta che mi rapporto con la tela proprio non riesco. Ho bisogno di andare oltre. È stato così fin dal primo giorno in accademia, ho sempre avuto la tendenza ad uscire fuori dalla superficie, e soprattutto a raggirare i limiti che in qualche modo, credo, la tradizione ti impone se vuoi fare pittura. Questo aspetto della tridimensionalità mi ha sempre attratto. Qualche mese fa, salendo in mansarda a casa dei miei, ho trovato un regalo fatto a mio padre per la festa del papà almeno una ventina di anni fa. E la cosa incredibile è che la dinamica del lavoro dietro questo oggetto infantile era la stessa di oggi: una base con delle figure poste su tre piani: in primo piano delle sagome ritagliate da una foto di me e mio padre che ci abbracciamo, incastrate alla base con degli stuzzicadenti; dietro, delle immagini ritagliate da libri di illustrazione; sullo sfondo una specie di paesaggio; e dall'alto, attaccati con dei fili, coriandoli che rimanevano a mezz'aria. In questo esempio, che era semplicemente un regalo uscito dalle mani di un bambino, c'era già tutto quello che sarebbe tornato durante gli anni in accademia. Questo aspetto scenografico, questa somma di elementi personali che si mescolano ad oggetti estratti da altri contesti, per non parlare dell'uso dei materiali poveri, che ancora preferisco. In accademia ho scelto comunque pittura perché non c'è altra arte. Lo dico un po' come provocazione, ma la pittura si pone su un livello che sorpassa ogni altro linguaggio ai miei occhi. Tutto si riconduce alla pittura, non c'è storia. Ma ogni volta in cui ho provato, perché ho sempre desiderato fortemente essere un pittore, il dipinto non mi ha mai soddisfatto. Ammiro chi riesci a far rientrato tutto quello di cui ha bisogno all'interno di una struttura definita, piana, ma a me serve andare oltre. Ho dozzine di tele con attaccati giocattoli, foto, pezzi di cose e scarti. Ma neanche quello era abbastanza. Allora piano piano ho lasciato perdere, ho iniziato a lavorare dentro dei cassetti che trovato per strada, dipingendo sul fondo e tutt'intorno. Poi ho iniziato a sommare elementi dentro questi cassetti ed è nato il primo box, nel 2012. Mi piaceva tantissimo, perché mi sembrava di aver fatto qualcosa di diverso.


Ziervogel #2, serie Impossible Nature,  33 x 23 x 11 cm, 2015



Francesca: Che rilevanza dai alla scenografia?

Alex: Non mi interessa il teatro come arte, se questa scenografia si riflette nei miei lavori è solo una questione compositiva. Mi piace quando tutto riporta, quando gli spazi si compensano, i vuoti e gli spazi pieni dialogano. È una questione di puro equilibrio estetico.

 
Ziervogel #3, serie Impossible Nature, 33 x 23 x 23 cm, 2015 



Francesca: Per “definire” i tuoi lavori utilizzi la parola teatrini, spiegami… io considero l’impianto scenografico classico una gabbia dove in fondo non si è mai cercato un ruolo attivo con il pubblico…il mondo era ricostruito tra le quinte e il sipario e tu lo guardavi dal tuo posto.

Alex: Sì, e torniamo a ciò che dicevamo. Quando li chiamo teatrini lo faccio per rimandare soprattutto a questo aspetto scenografico. Non so, forse ho una mancanza di sostantivi adeguati a descrivere i miei lavori, e quello di teatrino mi sembra il più adatto o suggestivo. Qualcuno mi ha addirittura fatto notare che i miei sono lavori molto “italiani” perché richiamano alla tradizione delle marionette e dei teatri di strada. È una considerazione che mi è piaciuta, anche se l'idea di fare un'arte italiana lì per lì mi ha spaventato, perché considero ovviamente l'arte nel suo valore universale. È vero quello che dici quando parli di funzione passiva. Come ti ho detto nelle mie opere mi piace tentare lo spettatore chiamandolo ad alzarsi dalla sedia e andare oltre la sua postazione. In questo caso la funzione è attiva nel senso che l'osservatore è chiamato ad entrare, a scorgersi dentro. Poi gli attori restano tali, le immagini ritagliate e poste in quel preciso modo hanno una funzione chiara che devono compiere; l'osservatore non è chiamato a salire sul palco, non faccio arte relazionale; ma per lo meno invito lo stesso a non rimanere immobile, lo sollecito a cercare individualmente il punto di vista che più preferisce, e dunque l'interpretazione che meglio riflette il suo sguardo. Forse raggiungo il teatro se parliamo di scherzo, di finzione, qualcosa che tradisce le aspettative. Il teatro è manipolazione, è una proiezione illusoria di qualcosa. È un contenitore di storie. In questo caso l'accostamento dei miei lavori ad una pièce teatrale mi piace, è molto evocativa. Ma ovviamente stiamo parlando, al massimo, di un teatro delle maschere o meglio ancora di un teatro surrealista, il quale ha una carica onirica che attinge dalla realtà ma va oltre.


Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature,  28 x 20 x 8 cm, 2014

 


Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature,  28 x 20 x 8 cm, 2014


Francesca: Nelle interviste sottolinei spesso il fatto che le tue opere abbiano “la capacità di contenere il reale in base alla soggettività”; non pensi che questo dovrebbe essere insito in ogni opera e anche nella vita degli individui? Lo sottolinei perché secondo te dovrebbe esserci ma non c’è di fatto?

Alex: Quando lo dico non mi metto su un piano di paragone con gli altri artisti, ribadisco semplicemente quella che è una mia personale necessità: dare degli indizi della mia esperienza all'interno di questi elaborati. In genere direi di sì, ogni opera riflette in qualche modo la soggettività dell'artista, ma questo forse si intuisce solo guardando la ricerca dell'artista sulla lunga distanza. Penso ad uno come Damien Hirst e ai suoi lavori con i pallini colorati. Lì la soggettività è apparentemente ridotta a zero, sono dipinti potenti ma statici, eppure, se vedi il personaggio abbracciandolo nella sua interezza, sposandone la filosofia, puoi intravedere la sua figura dietro queste opere. Voglio dire che, anche se non è sempre percepibile in modo diretto o immediato, credo di sì, l'individuo è vivo dietro il suo lavoro. Io spesso inserisco frammenti personali dentro le mie opere, perché l'idea è quella di lasciare tracce. Non sono sempre visibili; a volte questi elementi sono nascosti: una foto incollata sul retro, un appunto scritto a mano... è come se volessi confezionare l'opera descrivendola come il risultato di un momento preciso. In accademia per esempio ho sempre avuto una gran difficoltà a lavorare in aula, era un po' una sorta di trauma, e invidiavo molto chi riusciva a vivere l'arte come qualcosa di pubblico. Io personalmente l'ho sempre vissuta come un processo liberatorio ma molto intimo, come scrivere un diario: il mio studio era e ancora è la mia cameretta, non riesco a dividermi dallo spazio in cui vivo, proprio perché quello spazio mi conosce ed è l'unico posto dove riesco ad essere naturale nel momento in cui creo. Quindi vedi che è ovvio parlarti di soggettività. Altro esempio: non sono uno che riesce a lavorare se questa urgenza non viene fuori: a volte passo giorni interi bloccato, e li passo a leggere o documentarmi, perché con le mani non riesco a far niente. Poi arriva la botta, sale e corro a lavorare. È una cosa mia. In ogni sua forma, devo essere dentro al lavoro.



Marzo 2016

Alex Urso: (n. 1987) lavora prevalentemente con la tecnica del collage e dell'assemblaggio. Laureato in Lettere e Filosofia presso l'Università degli Studi di Macerata. Diplomato in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in gallerie e spazi pubblici tra Italia e Polonia. Attualmente vive e lavora a Varsavia, dove porta avanti la sua attività di artista e curatore indipendente, scrivendo di arte e cultura contemporanea per riviste di settore.