martedì 15 marzo 2016

CONVERSANDO CON ALEX URSO

Francesca: Com’è il tuo rapporto con le cose? E l’incontro e la scelta come avviene?

Alex: Bisognerebbe chiederlo alle cose, perché sono loro che mi cercano. Io ne sono attratto. È stato sempre così, mi giro intorno quando cammino, le trovo agli angoli della strada, scatole di legno, ceramiche, mucchi di cose che apparentemente non servono a niente mi appaiono come rivelazioni improbabili all'interno della città. C'è un aspetto romantico eccezionale, vorrei evitarlo ma è palese: il luogo in cui vivo diventa un inventario di cose: era così quando abitavo a Milano, ed è così oggi a Varsavia. Qui soprattutto, dove c'è un passato drammatico vicinissimo, i bauli delle vecchie case in questi anni si sono svuotati di ricordi dolorosi, oggetti, foto, che riempiono i mercatini delle pulci. Basta farci un giro per rimanerne folgorato. Interi album di famiglia venduti per pochi soldi, che racchiudono una bellezza sconfinata, e una purezza inestimabile. C'è qualcosa di spietato anche in tutto ciò, perché a volte vorrei comprare tutto e riportare indietro questi oggetti a chi li ha smarriti o anni fa li ha venduti per necessità e ora ne rimpiange la perdita. In questo senso dico che l'oggetto nasconde una storia segreta e personalissima, il cui passato può essere solo lontanamente immaginato: la tentazione di ricostruire il puzzle che c'è dietro è alta, si gioca con la fantasia, ma la carica poetica che quella “cosa” conserva è presente, potente, eppure illeggibile. L'oggetto diventa, dunque, qualcosa di sacro, ed è una questione che dal punto di vista antropologico è sempre stata studiata. Dal punto di vista strettamente poetico invece, le cose diventano dei residui del mondo passati di mano in mano come una staffetta infinita. In questo passaggio conservano la storia e l'esperienza degli individui, accumulandole al loro interno, e caricandosi di un'aura magica. Ed è quest'aura che mi chiama. Ricordo una citazione di Charles Simic, “la banalità è miracolosa se vista nel modo giusto”. E proprio questa banalità mi folgora, illumina tutto, basta notarla quando ti cerca.

Senza titolo #2, serie Impossible Nature, 22 x 17 x 10 cm, 2015




Francesca: Nelle interviste fai distinzione tra readymade e oggetti sottratti al quotidiano perchè?

Alex: Mi piace la parola “oggetto” perché conserva una certa neutralità, che invece non ha più il termine “readymade”, il quale si pone su un piano ben diverso, che è già un piano artistico. Lo stesso Duchamp, che dell'utilizzo di questa parola nell'arte fu il primo, inizia ad usarla ben più tardi della creazione dei suoi primi oggetti seriali. In principio, piuttosto, c'era solo il gioco e, annesso ad esso, la variante della casualità. Ed è questo che mi piace conservare, perché proprio nell'assenza di una definizione precisa si crea interesse e sorpresa. Tornando a Duchamp il termine “readymade” viene attribuito a questi oggetti solo dopo il suo viaggio in America del 1915, quando insomma avverte il bisogno di dare un nome ad opere che deviano da ogni definizione (“la parola readymade sembrava adattarsi perfettamente a quelle cose che non erano opere d'arte, che non erano schizzi, che non erano nessuna delle espressioni usate a accettate nel mondo dell'arte”). In questo modo l'artista confeziona questi frammenti del quotidiano dentro una nomenclatura definita, che ne congela la bellezza dando all'atto di sottrazione dal mondo una parvenza assai più fredda e programmatica. E questo, al momento, è agli antipodi di quello che voglio fare con i miei lavori: voglio che le cose parlino, non che emanino indifferenza visiva, voglio che siano riconducibili al mondo e che conservino una valenza estetica viva. Inoltre, generalmente, i readymade sono oggetti estratti dal quotidiano e trasportati in un contesto nuovo. Ma spesso questa traduzione è completa, l'oggetto “fatto” viene conservato nella sua integrità e, esclusi piccoli interventi, rimane intatto al momento di lasciare il mondo per riscoprire una poesia nuova. Voglio dire che fisicamente l'oggetto resta tale, il cambiamento è squisitamente concettuale, ed è dato dall'artista che interviene, spesso, solo su un piano mentale. Nel mio caso, invece, questi oggetti vengono integrati dentro l'opera, oppure attorno ad essi si crea un'opera che prende per mano questo frammento di mondo conducendolo verso significati nuovi. C'è insomma una funzione attiva dell'oggetto, che si fa carico del suo senso profondo decidendo di conservarlo adattandolo ad un contesto diverso. Il mio intervento è decisivo, e non mi limito solo a tradurre questo passaggio dal piano originale dell'oggetto a quello letterario, ma intorno ad esso scrivo una narrazione. E questa narrazione dà allo stesso valori nuovi e inattesi. Insomma, nel mio caso, l'oggetto non è fine a sé stesso. Piuttosto utilizzo la parola “assemblaggio”, perché richiama a questa stratificazione di elementi, di frammenti di mondo che si sommano e
creano una storia. Non mi chiudo dunque nell'ambito della scultura, ma mi apro a tecniche e linguaggi differenti, dalla pittura alla scultura all'installazione. Il risultato, alla fine, è sì un oggetto, ma l'oggetto non è la finalità, quanto il pretesto per raccontare altro. Ogni mio lavoro è una somma di addendi in cui il minimo comune denominatore per ognuno di essi resta comunque, sempre, il mondo.


Ziervogel #1, serie Impossible Nature , 33 x 24 x 11 cm, 2015 

Francesca: Tu hai detto: “gli oggetti devono parlare da soli e dicono più cose possibili senza necessariamente il mio controllo”; come fai ad evitare il controllo dal momento che li scegli e li inserisci in contesti creati da te con minuzia? Spiegami; quando avviene una scelta e una collocazione, non vi è un già una forma di controllo?

Alex: Il controllo è necessario, ma è conseguente. Non so neanche se la parola controllo sia adeguata, perché al momento della creazione dell'opera non so con certezza dove mi sto dirigendo: mi prendo una responsabilità, che è quella di ascoltare la carica dell'oggetto e pilotarla verso territori diversi. Sopra di essa, come una stratificazione di storie, apporto la mia esperienza. Le cose si sommano. Ma è ovvio che stiamo rimanendo in una sfera fortemente romantica, dove potrei continuare a divagare per ore. Quello che vuoi sentirti dire è che sì, l'artista fa il tutto, ed è logico che in parte sia così. Eppure lascio sempre all'oggetto su cui decido di lavorare ampia presenza all'interno dell'opera. C'è una interazione tra me e lo stesso. Non mi prendo la briga di descrivere quell'oggetto definendolo sotto una veste inedita, ho molto rispetto per la sua storia. Piuttosto ad essa sommo la mia esperienza, la mia poetica, un dettaglio, una narrazione che nasce spesso in modo fortuito e si incastra naturalmente al tutto. Mi piace inoltre sempre lasciare ampio spazio all'interpretazione. Per questo l'oggetto parla solo. E per questo dico che il mio controllo non è necessario. Mi riferisco soprattutto alla lettura finale del lavoro. Ritornando al readymade, infatti, l'artista diventa artefice concettuale, che inquadra il valore lirico dell'oggetto, definendolo sotto una nuova veste artistica: da oggi tu non sarai più un orinatoio, ma un'opera. Io non faccio questo. La foto di una famiglia, una bambola di porcellana, un pacco di fiammiferi rimangono tali, li vedi nella mia opera e sai che vengono da altrove. Non hanno una presenza arrogante, come spesso le sculture readymade hanno. Si mostrano come elementi autonomi, frammenti di un quadro più grande che è quello dell'opera, la cui interpretazione ad ogni modo li coinvolge. Sono un valore aggiunto.

Non toccare desiderio, serie Impossible Nature,  36 x 23 x 15 cm, 2015


Francesca: Percepisco uno stridore quando si parla di assenza di guida e di responsabilità nella creazione… credo che le azioni contengano sempre delle intenzioni, più o meno consapevoli, vi è una responsabilità nel gesto. Anche Duchamp quando affermava che i suoi readymade erano una fuga, uno stratagemma per liberarsi dalle responsabilità, avverto qualcosa che non mi torna… Vi è un fare comunque e quindi responsabilità, e forse nel caso dei readymade è ancora più profonda poiché è un conducente di visioni amplificato. Che mi dici a riguardo?

Alex: Personalmente il quadro d'insieme non mi è mai chiaro all'inizio. È capitato raramente che io cercassi insistentemente l'oggetto per costruirci conseguentemente un'opera. In quei casi sì, c'era un'intenzione definita nella mia mente che in modo fortuito, ma voluto, si è avverata. La serie Impossible Nature, per esempio, è nata così: cercavo un libro sui pappagallini, perché volevo realizzare dei boxes tributo a Joseph Cornell. A Berlino, in un mercatino delle pulci, ho trovato esattamente quello che cercavo: un vecchio libro illustrato sui volatili. È stato un oggetto desiderato, e raggiunto. Poi, dopo tre boxes tutto si è sviluppato in modo amplificato, i tre boxes sono diventati trenta, ognuno creato in modo differente, sotto stimoli differenti. Però, generalmente, non ho delle intenzioni definite. Spesso mi trovo a raccogliere cose o a conservare oggetti convinto che un giorno mi torneranno utili. Li vedo e vorrei non lasciarmeli scappare. Ma non posso insistere e lavorarci immediatamente sopra, se davvero in quel momento non mi sento pronto a creare un'interazione con essi. Così li accumulo: ho riempito stanze di cose, tutte in ordine, tutto lasciato in attesa al proprio posto. Lascio questi oggetti lì, a fermentare, aspettando di sentirli davvero miei, nell'attesa di trovare una miccia che inneschi un cortocircuito e inventi una storia: può essere che il suggerimento arrivi dall'oggetto stesso, che guardandolo e riguardandolo mi indichi qualcosa, o può essere una vecchia foto di un libro che rappresenta una figura che, per qualche motivo, mi ricorda quell'oggetto. A quel punto lo prendo dallo scaffale e inizia il gioco. Parli di responsabilità. La responsabilità nel fare arte ad ogni modo è costante. Duchamp ha costruito la sua produzione su questa falsariga del dire e negare, e la sua ricerca vive nei paradossi, per cui interpreto le sue affermazioni con fascino, ma mai troppo alla lettera. Sono convinto che sapeva cosa volesse realizzare con quelle cose. Ogni artista avverte, più o meno consapevolmente, questa responsabilità. È tutta una questione di quanto sei davvero abile nel mettere a fuoco il futuro della tua ricerca, e questo varia da artista ad artista. Dipende dall'approccio che l'artista ha con l'arte stessa, e dal rapporto che l'individuo dietro l'artista ha col mondo. Io personalmente sento una responsabilità nella creazione, nel senso che avverto un'urgenza. Ma tutto procede per tentativi. Non mi è chiaro il motivo, c'è una spinta dal basso verso l'alto che mi invita a muovermi, ma all'inizio è tutto sfocato. Gli artisti concettuali per definizione affrontano il percorso in senso opposto. L'idea è precostituita, e l'artefatto una conseguenza. Per me è spesso il contrario. Vedo qualcosa che diventa uno stimolo e lo stimolo lascia spazio al processo creativo. È un camminare a gattoni, e c'è sempre un rischio alto di fallimento. Questa paura tiene acceso il tutto. Se fosse chiaro dove sto andando non avrei troppo piacere a mettermi in gioco.

Object of our affection, serie Impossible Nature, 18 x 12 x 17 cm, 2014


Francesca: Che importanza dai alla forma e al suo equilibrio?

Alex: Moltissima, a volte vorrei anche meno. Vorrei essere più libero di assecondare la forma e la figura per aprirmi a qualcosa di più astratto. Sento che mi ci avvicino, ma poi ricado nel gusto del bello. Ho piacere a creare delle opere che riflettano una certa armonia compositiva, e nei lavori sulla natura questo era anche necessario alla definizione stessa del progetto. Il progetto sulla natura nasceva proprio dalla volontà di accentuare il carattere decorativo della natura, a costo di sfiorare il kitsch. Sono attratto dagli equilibri formali. Questo non dovrei dirlo, ma in fondo non c'è nulla di male: qualche anno fa è morto mio nonno, l'impresa di pompe funebri ha creato nel salotto della sua casa una sorta di teatro greco, con la bara lunga al centro, un sipario rosso (o viola?) dietro, e poi le sedie che si aprivano a scalare ai lati. Una composizione perfetta, e che ha contribuito a far sentire le persone parte del momento, perché ha accentuato l'aspetto patetico confezionandolo in modo formalmente perfetto. Io ero affascinato da questa cosa, continuavo a pensare a come le persone abbiano bisogno sempre di ritrovarsi in una dimensione definibile. Si rompono confini, internet unisce territori, si scoprono pianeti e la dimensione temporale si frantuma, ma la composizione di un quadro rimane una certezza, qualcosa che conosciamo e che riconduce lo spettatore a un piacere, a un gusto. A qualcosa di consolidato, di accettato. Non vuol dire che questo mi piaccia o no, non ti dirò se in futuro potrò farne o meno a meno, ma credo che sia una tentazione affascinante. E finora ci sono cascato in pieno.

Escape from picture (after van Ruisdael), serie Impossible Nature, 38 x 25 x 5 cm, 2014 


Francesca: Che rapporto hai con il caso, lo ricerchi o lo accogli semplicemente?

Alex: A questa domanda non so risponderti, credo di aver cambiato idea negli anni. Quando sono entrato in Accademia -ed è una cosa che ho deciso di fare tardi- qualcuno ha iniziato a identificare le mie cose con una certa attitudine dada. Ho pensato, perché no? Eppure, a differenza degli autori dada, non tratto il caso come un principio compositivo, non lancio un dado e la composizione esce fuori come per magia. Ciò che definisce l'opera è il mio gusto; il modo in cui sommo questi elementi (pur casuali) è comunque dettato dal mio senso estetico. Personalmente, c'è qualcosa che mi affascina ma mi respinge riguardo alle dinamiche dada: non mi riferisco solo alle arti visive, ma anche alla letteratura di stampo dada. E’ qualcosa di miracoloso per quel tempo, funzionale in quel periodo storico, ma poi mi domando: dov'è in tutto questo l'autore? Mi piace il fattore “sorpresa”. Ma dada esaspera tutto, e la sorpresa diventa provocazione. C'è una emancipazione lirica che dà troppo peso alla fatalità. Il caso rappresenta l'ingrediente fondamentale, che praticamente rende l'artista solo un mediatore. Ne limita la presenza, ne riduce la portata. Per questo ti dico che il caso lo accolgo. Credo che, nell'arte come nella vita, il soggetto abbia una forte valenza decisionale. Le cose capitano, ma sta all'individuo saperle interpretare e farne uso nell'esperienza. Eppure, se ci penso, spesso il caso lo cerco. Ma come fai? Più il caso lo cerchi e più non lo trovi. Voglio dire, nel momento in cui mi accorgo di sperare che il caso mi colga, che possa incontrare ancora quella ragazza che per caso, appunto, ho visto un giorno sull'autobus, ecco che questo non succederà. La incontrerai, forse, ancora, quando meno te lo aspetti. Perché la magia si rivela tra le pieghe del quotidiano, è un imprevisto. Se fossi lì a cercarla, non si tratterebbe più di magia, ma di un evento che arriva come causa di una intenzione. E allora si rompe l'incanto.


 Senza titolo #5, serie Impossible Nature,15 x 19 x 4.5 cm, 2014



Francesca: Avverti una necessità di andare incontro allo spettatore, come mai? Non ritieni che in ogni forma di visione vi sia un incontro, o comunque una possibilità?

Alex: No, spesso l'incontro con l'opera è una possibilità preclusa allo spettatore. Appunto, guarda, stiamo parlando di “spettatore” che è un termine di derivazione teatrale e poi preso in prestito dalla televisione. In entrambi i casi c'è una funzione passiva. Sono situazioni che relegano il pubblico alla funzione di referente dello spettacolo, inteso come intrattenimento: il dialogo tra messa in scena e destinatario è unidirezionale. Nell'arte visiva l'osservatore, che è un termine che preferisco perché rimanda più alla possibilità da parte dell'individuo di analizzare, di conoscere meglio ciò che gli è davanti, questa funzione “attiva” non è sempre scontata. Ovvio, dipende molto dallo stesso osservatore e dalla sua abilità nel sapersi mettere in gioco, ma è pur vero che l'arte contemporanea, soprattutto quella più concettuale, spesso esclude il pubblico. E al pubblico va bene così, in fondo comporta meno fatica. Ad ogni modo a me piace che i miei lavori pongano chiunque decida di stabilirci un dialogo, nella condizione di potersi muovere intorno, entrare dentro per capirne il senso. È la tridimensionalità: devi sporgerti di lato, chinarti in avanti, affinare lo sguardo e accorgerti di un dettaglio nascosto dietro. Se aspetti che l'opera ti arrivi sola e ti parli non succederà. Quindi è un incontro non solo in senso lato, metaforico, ma anche nella sua accezione più diretta: la lettura del lavoro è condizionata da questo gioco di ruoli. Lo spettatore è chiamato a dialogare anche fisicamente col lavoro. Che poi ci sia comunque una forte dose di narcisismo nel quale l'opera si pone come qualcosa di inarrivabile è ovvio, perché sono lavori sotto una vetrina, su un piedistallo. E in fondo l'arte è questo (esclusa forse solo quella relazionale): c'è sempre una certa dose di vanitas. I miei lavori amano lasciarsi ammirare. È come guardare delle puttane dietro le vetrine di Amsterdam. Diciamo che lanciano un'esca, se ne sei attratto abbocchi.



Variazione barocca #2, serie Impossible Nature, 20,5x20,5x7cm, 2014





Francesca: Rifiuto della bidimensionalità… motivo?

Alex: Ho sempre cercato delle strade diverse. La pittura è un linguaggio così consolidato, è un rituale definito, magnifico, ma definito, che in qualche modo obbligo l'artista a rimanere entro percorsi già battuti. Ho una formazione pittorica, ma ogni volta che mi rapporto con la tela proprio non riesco. Ho bisogno di andare oltre. È stato così fin dal primo giorno in accademia, ho sempre avuto la tendenza ad uscire fuori dalla superficie, e soprattutto a raggirare i limiti che in qualche modo, credo, la tradizione ti impone se vuoi fare pittura. Questo aspetto della tridimensionalità mi ha sempre attratto. Qualche mese fa, salendo in mansarda a casa dei miei, ho trovato un regalo fatto a mio padre per la festa del papà almeno una ventina di anni fa. E la cosa incredibile è che la dinamica del lavoro dietro questo oggetto infantile era la stessa di oggi: una base con delle figure poste su tre piani: in primo piano delle sagome ritagliate da una foto di me e mio padre che ci abbracciamo, incastrate alla base con degli stuzzicadenti; dietro, delle immagini ritagliate da libri di illustrazione; sullo sfondo una specie di paesaggio; e dall'alto, attaccati con dei fili, coriandoli che rimanevano a mezz'aria. In questo esempio, che era semplicemente un regalo uscito dalle mani di un bambino, c'era già tutto quello che sarebbe tornato durante gli anni in accademia. Questo aspetto scenografico, questa somma di elementi personali che si mescolano ad oggetti estratti da altri contesti, per non parlare dell'uso dei materiali poveri, che ancora preferisco. In accademia ho scelto comunque pittura perché non c'è altra arte. Lo dico un po' come provocazione, ma la pittura si pone su un livello che sorpassa ogni altro linguaggio ai miei occhi. Tutto si riconduce alla pittura, non c'è storia. Ma ogni volta in cui ho provato, perché ho sempre desiderato fortemente essere un pittore, il dipinto non mi ha mai soddisfatto. Ammiro chi riesci a far rientrato tutto quello di cui ha bisogno all'interno di una struttura definita, piana, ma a me serve andare oltre. Ho dozzine di tele con attaccati giocattoli, foto, pezzi di cose e scarti. Ma neanche quello era abbastanza. Allora piano piano ho lasciato perdere, ho iniziato a lavorare dentro dei cassetti che trovato per strada, dipingendo sul fondo e tutt'intorno. Poi ho iniziato a sommare elementi dentro questi cassetti ed è nato il primo box, nel 2012. Mi piaceva tantissimo, perché mi sembrava di aver fatto qualcosa di diverso.


Ziervogel #2, serie Impossible Nature,  33 x 23 x 11 cm, 2015



Francesca: Che rilevanza dai alla scenografia?

Alex: Non mi interessa il teatro come arte, se questa scenografia si riflette nei miei lavori è solo una questione compositiva. Mi piace quando tutto riporta, quando gli spazi si compensano, i vuoti e gli spazi pieni dialogano. È una questione di puro equilibrio estetico.

 
Ziervogel #3, serie Impossible Nature, 33 x 23 x 23 cm, 2015 



Francesca: Per “definire” i tuoi lavori utilizzi la parola teatrini, spiegami… io considero l’impianto scenografico classico una gabbia dove in fondo non si è mai cercato un ruolo attivo con il pubblico…il mondo era ricostruito tra le quinte e il sipario e tu lo guardavi dal tuo posto.

Alex: Sì, e torniamo a ciò che dicevamo. Quando li chiamo teatrini lo faccio per rimandare soprattutto a questo aspetto scenografico. Non so, forse ho una mancanza di sostantivi adeguati a descrivere i miei lavori, e quello di teatrino mi sembra il più adatto o suggestivo. Qualcuno mi ha addirittura fatto notare che i miei sono lavori molto “italiani” perché richiamano alla tradizione delle marionette e dei teatri di strada. È una considerazione che mi è piaciuta, anche se l'idea di fare un'arte italiana lì per lì mi ha spaventato, perché considero ovviamente l'arte nel suo valore universale. È vero quello che dici quando parli di funzione passiva. Come ti ho detto nelle mie opere mi piace tentare lo spettatore chiamandolo ad alzarsi dalla sedia e andare oltre la sua postazione. In questo caso la funzione è attiva nel senso che l'osservatore è chiamato ad entrare, a scorgersi dentro. Poi gli attori restano tali, le immagini ritagliate e poste in quel preciso modo hanno una funzione chiara che devono compiere; l'osservatore non è chiamato a salire sul palco, non faccio arte relazionale; ma per lo meno invito lo stesso a non rimanere immobile, lo sollecito a cercare individualmente il punto di vista che più preferisce, e dunque l'interpretazione che meglio riflette il suo sguardo. Forse raggiungo il teatro se parliamo di scherzo, di finzione, qualcosa che tradisce le aspettative. Il teatro è manipolazione, è una proiezione illusoria di qualcosa. È un contenitore di storie. In questo caso l'accostamento dei miei lavori ad una pièce teatrale mi piace, è molto evocativa. Ma ovviamente stiamo parlando, al massimo, di un teatro delle maschere o meglio ancora di un teatro surrealista, il quale ha una carica onirica che attinge dalla realtà ma va oltre.


Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature,  28 x 20 x 8 cm, 2014

 


Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature,  28 x 20 x 8 cm, 2014


Francesca: Nelle interviste sottolinei spesso il fatto che le tue opere abbiano “la capacità di contenere il reale in base alla soggettività”; non pensi che questo dovrebbe essere insito in ogni opera e anche nella vita degli individui? Lo sottolinei perché secondo te dovrebbe esserci ma non c’è di fatto?

Alex: Quando lo dico non mi metto su un piano di paragone con gli altri artisti, ribadisco semplicemente quella che è una mia personale necessità: dare degli indizi della mia esperienza all'interno di questi elaborati. In genere direi di sì, ogni opera riflette in qualche modo la soggettività dell'artista, ma questo forse si intuisce solo guardando la ricerca dell'artista sulla lunga distanza. Penso ad uno come Damien Hirst e ai suoi lavori con i pallini colorati. Lì la soggettività è apparentemente ridotta a zero, sono dipinti potenti ma statici, eppure, se vedi il personaggio abbracciandolo nella sua interezza, sposandone la filosofia, puoi intravedere la sua figura dietro queste opere. Voglio dire che, anche se non è sempre percepibile in modo diretto o immediato, credo di sì, l'individuo è vivo dietro il suo lavoro. Io spesso inserisco frammenti personali dentro le mie opere, perché l'idea è quella di lasciare tracce. Non sono sempre visibili; a volte questi elementi sono nascosti: una foto incollata sul retro, un appunto scritto a mano... è come se volessi confezionare l'opera descrivendola come il risultato di un momento preciso. In accademia per esempio ho sempre avuto una gran difficoltà a lavorare in aula, era un po' una sorta di trauma, e invidiavo molto chi riusciva a vivere l'arte come qualcosa di pubblico. Io personalmente l'ho sempre vissuta come un processo liberatorio ma molto intimo, come scrivere un diario: il mio studio era e ancora è la mia cameretta, non riesco a dividermi dallo spazio in cui vivo, proprio perché quello spazio mi conosce ed è l'unico posto dove riesco ad essere naturale nel momento in cui creo. Quindi vedi che è ovvio parlarti di soggettività. Altro esempio: non sono uno che riesce a lavorare se questa urgenza non viene fuori: a volte passo giorni interi bloccato, e li passo a leggere o documentarmi, perché con le mani non riesco a far niente. Poi arriva la botta, sale e corro a lavorare. È una cosa mia. In ogni sua forma, devo essere dentro al lavoro.



Marzo 2016

Alex Urso: (n. 1987) lavora prevalentemente con la tecnica del collage e dell'assemblaggio. Laureato in Lettere e Filosofia presso l'Università degli Studi di Macerata. Diplomato in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in gallerie e spazi pubblici tra Italia e Polonia. Attualmente vive e lavora a Varsavia, dove porta avanti la sua attività di artista e curatore indipendente, scrivendo di arte e cultura contemporanea per riviste di settore.


Impossible Nature - Alex Urso

Alex Urso definisce i suoi lavori “teatrini”, io preferisco chiamarli diorami.
Il diorama, che significa: veduta, fu inventato da L.J.M. Daguerre e C.M. Bouton nel 1822 per ottenere effetti tridimensionali nella rappresentazione di luoghi, persone e oggetti; era costituito da stratificazioni di tele trasparenti dipinte che, con una particolare illuminazione, davano all’osservatore l’idea di realtà. Oggi viene considerato un diorama, per esempio, la vetrina del museo che rappresenta un ambiente naturale, dove vi sono collocate elementi artificiali e reali appartenenti al regno vegetale o al regno animale.
Gli aspetti essenziali del diorama: idea di veduta prospettica, di raffigurazione tridimensionale del reale, la ricerca dell’equilibrio estetico, la minuzia con cui sono realizzati, la magia che emanano e la fascinazione che ti attrae verso di loro; mi riportano alle opere di Alex Urso.
Le opere che compongono la serie Impossible Nature (2014- 2015), omaggio a Joseph Cornell - pioniere dell'assemblaggio ed esponente di riferimento del surrealismo americano - sono dei magneti magici che conducono in un universo sofisticato, pulsante di bellezza e pieno di concetto.
Questa dualità concordante mi porta a pensare che la poetica di Urso sia un ritorno all’idea - quasi rinascimentale - di un’arte capace sia di piacevolezza visiva, sia di essere portatrice di “alte” riflessioni.
Alex Urso assembla “cianfrusaglie apparentemente prive di valore” che recupera dal mondo, e le integra dentro l’opera ideando nuove narrazioni; visioni dal forte equilibrio formale capaci d’infondere un senso di quarta dimensione. Sono panorami affascinanti che contengono al loro interno una stratificazione articolata di senso, delle matrioske concettuali che offrono infinite riflessioni, e chi le osserva può decidere in che modo spingersi nella loro trama.
Gli oggetto nelle sue opere non vanno etichettati come ready made: con Duchamp, Urso, non ha in comune il senso e l’utilizzo dell’oggetto; semmai, ciò che l’accomuna all’ artista francese, è l’ironica dissacrazione della storia dell’arte, la smodata precisione, l’ossessione estetica per le forme e per l’equilibro.
A differenza del ready made duchampiano, l’oggetto nella poetica di Urso, non si definisce in una nuova veste estetica e concettuale; l’oggetto è sempre riconducibile al mondo e conserva la sua identità e la sua pienezza formale. Le lattine, le fotografie, gli arbusti, le scatole di fiammiferi, le semenze, i fiori artificiali… rimangono tali, non vengono utilizzati come altro da sé. I frammenti del mondo che popolano i lavori, sono elementi autonomi che, costudendo la loro identità, decidono di adattarsi ad un contesto diverso… l’opera. Urso non compie un intervento di sottrazione dal reale e di definizione altra dell’oggetto, vi scrive attorno nuove narrazioni.
Le opere della serie “Impossible Nature” riaprono la questione del legame tra l’essere umano e la Natura.
Il contatto tra l’uomo e la natura è il filo d’Arianna che percorre la filogenesi dell’essere umano e la storia dell’arte. La visione della Natura, il confrontarsi con essa, il bisogno di possederla e l’ossessione di rappresentarla è insito in ogni artista, in ogni epoca; a prescindere dalle considerazioni e le soluzioni stilistiche che egli trae.
Le forme naturali sono ammalianti, seducenti per la loro perfezione armonica ma irraggiungibili, rimangono a distanza: sono dei miraggi. L’artista affascinato da loro tenta di ritrarle e di possederle ma ciò che è ottiene solo un’imitazione della Natura. Crea una Natura emulata, che il più delle volte sfocia in un ornamento.
Le scatole zuccherine di Alex Urso, in un primo momento ci incantano e sembrano condurci in mondo magico di candore e bellezza, ma in realtà svelano che l’arte non è altro che una bolla di sapone in cui forme e colori riecheggiano il reale, una bolla che scoppia di fronte alla presunzione di autenticità del reale raffigurato e che, come la Natura che rappresenta, è vana.
La Natura surrogata e ornamentale che viene generata dall’ Arte e il lato fittizio di questa è il motivo conduttore degli assemblaggi “Impossible Nature”, realizzati negli ultimi due anni a Varsavia ed esposti, per la prima volta in Italia, allo Spazio Meme.
L’opera, per esempio, dal titolo emblematico: “Non toccare desiderio” (2015) rappresenta tre volatili dai colori accattivanti che giocano e mangiano delle semenze in un nido artificiale.
Urso ha ritagliato da un libro antico di storia naturale, tre uccelli che nel corso della storia umana hanno perso la loro identità di animali e sono diventati oggetti ornamentali e li ha disposti in modo armonioso nello spazio di un box creando dei finti piani prospettici quadridimensionali, ha ricoperto il nido con una carta da parati ornamentale che raffigura rami fioriti, poi ha inserito della semenza vera dai toni che richiamano le ali dei volatili. In questo modo, l’artista sottolinea ed enfatizza gli elementi che compongono l’opera, per riproporre, appunto, una visione di Natura artefatta.
Un altro esempio calzante è l’opera dal titolo “Ziervogel #2” (2015): espressione del cortocircuito tra Arte e Natura.
L’opera rappresenta un nido dove un collage di un uccello è riposto su un’altalena di legno e ferro; ai piedi dell’animale vi sono di bastoncini di semi per uccelli, alle sue spalle un paesaggio bucolico dove spicca un arcobaleno. Tutti gli elementi reali e artificiali che compongono il lavoro, dialogano in una perfetta sinfonia visiva… i colori si richiamano tra loro e le forme s’intersecano in maniera impeccabile. Questo tripudio per gli occhi è un chiaro manifesto della velleità dell’arte.
Il paesaggio che Urso colloca dietro le spalle del volatile è una citazione: è l’opera “Paesaggio con arcobaleno” (1824) del pittore austro-tedesco Joseph Anton Koch. Il riportare il paesaggio di una artista storicizzato come scenario della propria opera, rafforza e amplifica il concetto che da sempre per l’Arte, la Natura è inarrivabile. In questo frangente, la scelta da parte di Urso dell’opera di Koch, dall’ atmosfera idilliaca, che a tratti sfocia nel kitsch, sottolinea con una spiccata ironia e padronanza di linguaggio, il carattere decorativo della Natura.

12 marzo 2016

Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016

Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016

Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016

Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016

 

Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016


Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016




Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016


Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016



Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016


Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016


Impossible Nature-Spazio Meme, Carpi, marzo 2016




Alex Urso: (n. 1987) lavora prevalentemente con la tecnica del collage e dell'assemblaggio. Laureato in Lettere e Filosofia presso l'Università degli Studi di Macerata. Diplomato in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in gallerie e spazi pubblici tra Italia e Polonia. Attualmente vive e lavora a Varsavia, dove porta avanti la sua attività di artista e curatore indipendente, scrivendo di arte e cultura contemporanea per riviste di settore.