Francesca: Com’è il tuo
rapporto con le cose? E l’incontro e la scelta come avviene?
Alex: Bisognerebbe chiederlo alle cose, perché sono loro che mi
cercano. Io ne sono attratto. È stato sempre così, mi giro intorno quando
cammino, le trovo agli angoli della strada, scatole di legno, ceramiche, mucchi
di cose che apparentemente non servono a niente mi appaiono come rivelazioni
improbabili all'interno della città. C'è un aspetto romantico eccezionale, vorrei
evitarlo ma è palese: il luogo in cui vivo diventa un inventario di cose: era
così quando abitavo a Milano, ed è così oggi a Varsavia. Qui soprattutto, dove
c'è un passato drammatico vicinissimo, i bauli delle vecchie case in questi
anni si sono svuotati di ricordi dolorosi, oggetti, foto, che riempiono i
mercatini delle pulci. Basta farci un giro per rimanerne folgorato. Interi
album di famiglia venduti per pochi soldi, che racchiudono una bellezza
sconfinata, e una purezza inestimabile. C'è qualcosa di spietato anche in tutto
ciò, perché a volte vorrei comprare tutto e riportare indietro questi oggetti a
chi li ha smarriti o anni fa li ha venduti per necessità e ora ne rimpiange la
perdita. In questo senso dico che l'oggetto nasconde una storia segreta e
personalissima, il cui passato può essere solo lontanamente immaginato: la
tentazione di ricostruire il puzzle che c'è dietro è alta, si gioca con la
fantasia, ma la carica poetica che quella “cosa” conserva è presente, potente,
eppure illeggibile. L'oggetto diventa, dunque, qualcosa di sacro, ed è una
questione che dal punto di vista antropologico è sempre stata studiata. Dal
punto di vista strettamente poetico invece, le cose diventano dei residui del
mondo passati di mano in mano come una staffetta infinita. In questo passaggio
conservano la storia e l'esperienza degli individui, accumulandole al loro
interno, e caricandosi di un'aura magica. Ed è quest'aura che mi chiama.
Ricordo una citazione di Charles Simic, “la
banalità è miracolosa se vista nel modo giusto”. E proprio questa banalità
mi folgora, illumina tutto, basta notarla quando ti cerca.
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Senza titolo #2, serie Impossible Nature, 22 x 17 x 10 cm, 2015 |
Francesca: Nelle interviste fai
distinzione tra readymade e oggetti sottratti al quotidiano perchè?
Alex: Mi piace la parola “oggetto” perché conserva una certa
neutralità, che invece non ha più il termine “readymade”, il quale si pone su
un piano ben diverso, che è già un piano artistico. Lo stesso Duchamp, che
dell'utilizzo di questa parola nell'arte fu il primo, inizia ad usarla ben più
tardi della creazione dei suoi primi oggetti seriali. In principio, piuttosto,
c'era solo il gioco e, annesso ad esso, la variante della casualità. Ed è
questo che mi piace conservare, perché proprio nell'assenza di una definizione
precisa si crea interesse e sorpresa. Tornando a Duchamp il termine “readymade”
viene attribuito a questi oggetti solo dopo il suo viaggio in America del 1915,
quando insomma avverte il bisogno di dare un nome ad opere che deviano da ogni
definizione (“la parola readymade
sembrava adattarsi perfettamente a quelle cose che non erano opere d'arte, che
non erano schizzi, che non erano nessuna delle espressioni usate a accettate
nel mondo dell'arte”). In questo modo l'artista confeziona questi frammenti
del quotidiano dentro una nomenclatura definita, che ne congela la bellezza
dando all'atto di sottrazione dal mondo una parvenza assai più fredda e
programmatica. E questo, al momento, è agli antipodi di quello che voglio fare
con i miei lavori: voglio che le cose parlino, non che emanino indifferenza
visiva, voglio che siano riconducibili al mondo e che conservino una valenza
estetica viva. Inoltre, generalmente, i readymade sono oggetti estratti dal
quotidiano e trasportati in un contesto nuovo. Ma spesso questa traduzione è
completa, l'oggetto “fatto” viene conservato nella sua integrità e, esclusi
piccoli interventi, rimane intatto al momento di lasciare il mondo per
riscoprire una poesia nuova. Voglio dire che fisicamente l'oggetto resta tale,
il cambiamento è squisitamente concettuale, ed è dato dall'artista che
interviene, spesso, solo su un piano mentale. Nel mio caso, invece, questi
oggetti vengono integrati dentro l'opera, oppure attorno ad essi si crea
un'opera che prende per mano questo frammento di mondo conducendolo verso
significati nuovi. C'è insomma una funzione attiva dell'oggetto, che si fa
carico del suo senso profondo decidendo di conservarlo adattandolo ad un
contesto diverso. Il mio intervento è decisivo, e non mi limito solo a tradurre
questo passaggio dal piano originale dell'oggetto a quello letterario, ma
intorno ad esso scrivo una narrazione. E questa narrazione dà allo stesso
valori nuovi e inattesi. Insomma, nel mio caso, l'oggetto non è fine a sé
stesso. Piuttosto utilizzo la parola “assemblaggio”, perché richiama a questa
stratificazione di elementi, di frammenti di mondo che si sommano e
creano una storia. Non mi chiudo
dunque nell'ambito della scultura, ma mi apro a tecniche e linguaggi
differenti, dalla pittura alla scultura all'installazione. Il risultato, alla
fine, è sì un oggetto, ma l'oggetto non è la finalità, quanto il pretesto per
raccontare altro. Ogni mio lavoro è una somma di addendi in cui il minimo
comune denominatore per ognuno di essi resta comunque, sempre, il mondo.
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Ziervogel #1, serie Impossible Nature , 33 x 24 x 11 cm, 2015 |
Francesca: Tu hai detto: “gli
oggetti devono parlare da soli e dicono più cose possibili senza
necessariamente il mio controllo”; come fai ad evitare il controllo dal momento
che li scegli e li inserisci in contesti creati da te con minuzia? Spiegami;
quando avviene una scelta e una collocazione, non vi è un già una forma di
controllo?
Alex: Il controllo è necessario, ma è conseguente. Non so neanche
se la parola controllo sia adeguata, perché al momento della creazione
dell'opera non so con certezza dove mi sto dirigendo: mi prendo una
responsabilità, che è quella di ascoltare la carica dell'oggetto e pilotarla
verso territori diversi. Sopra di essa, come una stratificazione di storie,
apporto la mia esperienza. Le cose si sommano. Ma è ovvio che stiamo rimanendo
in una sfera fortemente romantica, dove potrei continuare a divagare per ore.
Quello che vuoi sentirti dire è che sì, l'artista fa il tutto, ed è logico che
in parte sia così. Eppure lascio sempre all'oggetto su cui decido di lavorare
ampia presenza all'interno dell'opera. C'è una interazione tra me e lo stesso.
Non mi prendo la briga di descrivere quell'oggetto definendolo sotto una veste
inedita, ho molto rispetto per la sua storia. Piuttosto ad essa sommo la mia
esperienza, la mia poetica, un dettaglio, una narrazione che nasce spesso in modo
fortuito e si incastra naturalmente al tutto. Mi piace inoltre sempre lasciare
ampio spazio all'interpretazione. Per questo l'oggetto parla solo. E per questo
dico che il mio controllo non è necessario. Mi riferisco soprattutto alla
lettura finale del lavoro. Ritornando al readymade, infatti, l'artista diventa
artefice concettuale, che inquadra il valore lirico dell'oggetto, definendolo
sotto una nuova veste artistica: da oggi tu non sarai più un orinatoio, ma
un'opera. Io non faccio questo. La foto di una famiglia, una bambola di
porcellana, un pacco di fiammiferi rimangono tali, li vedi nella mia opera e
sai che vengono da altrove. Non hanno una presenza arrogante, come spesso le
sculture readymade hanno. Si mostrano come elementi autonomi, frammenti di un
quadro più grande che è quello dell'opera, la cui interpretazione ad ogni modo
li coinvolge. Sono un valore aggiunto.
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Non toccare desiderio, serie Impossible Nature, 36 x 23 x 15 cm, 2015 |
Francesca: Percepisco uno stridore quando si parla di assenza
di guida e di responsabilità nella creazione… credo che le azioni contengano
sempre delle intenzioni, più o meno consapevoli, vi è una responsabilità nel
gesto. Anche Duchamp quando affermava che i suoi readymade erano una fuga, uno
stratagemma per liberarsi dalle responsabilità, avverto qualcosa che non mi
torna… Vi è un fare comunque e quindi responsabilità, e forse nel caso dei
readymade è ancora più profonda poiché è un conducente di visioni amplificato.
Che mi dici a riguardo?
Alex: Personalmente il quadro d'insieme non mi è mai chiaro
all'inizio. È capitato raramente che io cercassi insistentemente l'oggetto per
costruirci conseguentemente un'opera. In quei casi sì, c'era un'intenzione
definita nella mia mente che in modo fortuito, ma voluto, si è avverata. La
serie Impossible Nature, per esempio, è nata così: cercavo un libro sui
pappagallini, perché volevo realizzare dei boxes tributo a Joseph Cornell. A
Berlino, in un mercatino delle pulci, ho trovato esattamente quello che
cercavo: un vecchio libro illustrato sui volatili. È stato un oggetto
desiderato, e raggiunto. Poi, dopo tre boxes tutto si è sviluppato in modo
amplificato, i tre boxes sono diventati trenta, ognuno creato in modo
differente, sotto stimoli differenti. Però, generalmente, non ho delle
intenzioni definite. Spesso mi trovo a raccogliere cose o a conservare oggetti
convinto che un giorno mi torneranno utili. Li vedo e vorrei non lasciarmeli
scappare. Ma non posso insistere e lavorarci immediatamente sopra, se davvero
in quel momento non mi sento pronto a creare un'interazione con essi. Così li
accumulo: ho riempito stanze di cose, tutte in ordine, tutto lasciato in attesa
al proprio posto. Lascio questi oggetti lì, a fermentare, aspettando di
sentirli davvero miei, nell'attesa di trovare una miccia che inneschi un
cortocircuito e inventi una storia: può essere che il suggerimento arrivi
dall'oggetto stesso, che guardandolo e riguardandolo mi indichi qualcosa, o può
essere una vecchia foto di un libro che rappresenta una figura che, per qualche
motivo, mi ricorda quell'oggetto. A quel punto lo prendo dallo scaffale e
inizia il gioco. Parli di responsabilità. La responsabilità nel fare arte ad
ogni modo è costante. Duchamp ha costruito la sua produzione su questa
falsariga del dire e negare, e la sua ricerca vive nei paradossi, per cui
interpreto le sue affermazioni con fascino, ma mai troppo alla lettera. Sono
convinto che sapeva cosa volesse realizzare con quelle cose. Ogni artista
avverte, più o meno consapevolmente, questa responsabilità. È tutta una
questione di quanto sei davvero abile nel mettere a fuoco il futuro della tua
ricerca, e questo varia da artista ad artista. Dipende dall'approccio che
l'artista ha con l'arte stessa, e dal rapporto che l'individuo dietro l'artista
ha col mondo. Io personalmente sento una responsabilità nella creazione, nel senso
che avverto un'urgenza. Ma tutto procede per tentativi. Non mi è chiaro il
motivo, c'è una spinta dal basso verso l'alto che mi invita a muovermi, ma
all'inizio è tutto sfocato. Gli artisti concettuali per definizione affrontano
il percorso in senso opposto. L'idea è precostituita, e l'artefatto una
conseguenza. Per me è spesso il contrario. Vedo qualcosa che diventa uno
stimolo e lo stimolo lascia spazio al processo creativo. È un camminare a
gattoni, e c'è sempre un rischio alto di fallimento. Questa paura tiene acceso
il tutto. Se fosse chiaro dove sto andando non avrei troppo piacere a mettermi
in gioco.
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Object of our affection, serie Impossible Nature, 18 x 12 x 17 cm, 2014 |
Francesca: Che importanza dai
alla forma e al suo equilibrio?
Alex: Moltissima, a volte vorrei anche meno. Vorrei essere più
libero di assecondare la forma e la figura per aprirmi a qualcosa di più
astratto. Sento che mi ci avvicino, ma poi ricado nel gusto del bello. Ho
piacere a creare delle opere che riflettano una certa armonia compositiva, e
nei lavori sulla natura questo era anche necessario alla definizione stessa del
progetto. Il progetto sulla natura nasceva proprio dalla volontà di accentuare
il carattere decorativo della natura, a costo di sfiorare il kitsch. Sono
attratto dagli equilibri formali. Questo non dovrei dirlo, ma in fondo non c'è
nulla di male: qualche anno fa è morto mio nonno, l'impresa di pompe funebri ha
creato nel salotto della sua casa una sorta di teatro greco, con la bara lunga
al centro, un sipario rosso (o viola?) dietro, e poi le sedie che si aprivano a
scalare ai lati. Una composizione perfetta, e che ha contribuito a far sentire
le persone parte del momento, perché ha accentuato l'aspetto patetico
confezionandolo in modo formalmente perfetto. Io ero affascinato da questa
cosa, continuavo a pensare a come le persone abbiano bisogno sempre di
ritrovarsi in una dimensione definibile. Si rompono confini, internet unisce
territori, si scoprono pianeti e la dimensione temporale si frantuma, ma la
composizione di un quadro rimane una certezza, qualcosa che conosciamo e che riconduce
lo spettatore a un piacere, a un gusto. A qualcosa di consolidato, di
accettato. Non vuol dire che questo mi piaccia o no, non ti dirò se in futuro
potrò farne o meno a meno, ma credo che sia una tentazione affascinante. E
finora ci sono cascato in pieno.
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Escape from picture (after van Ruisdael), serie Impossible Nature, 38 x 25 x 5 cm, 2014 |
Francesca: Che rapporto hai
con il caso, lo ricerchi o lo accogli semplicemente?
Alex: A questa domanda non so risponderti, credo di aver cambiato
idea negli anni. Quando sono entrato in Accademia -ed è una cosa che ho deciso
di fare tardi- qualcuno ha iniziato a identificare le mie cose con una certa
attitudine dada. Ho pensato, perché no? Eppure, a differenza degli autori dada,
non tratto il caso come un principio compositivo, non lancio un dado e la
composizione esce fuori come per magia. Ciò che definisce l'opera è il mio
gusto; il modo in cui sommo questi elementi (pur casuali) è comunque dettato
dal mio senso estetico. Personalmente, c'è qualcosa che mi affascina ma mi
respinge riguardo alle dinamiche dada: non mi riferisco solo alle arti visive,
ma anche alla letteratura di stampo dada. E’ qualcosa di miracoloso per quel
tempo, funzionale in quel periodo storico, ma poi mi domando: dov'è in tutto
questo l'autore? Mi piace il fattore “sorpresa”. Ma dada esaspera tutto, e la
sorpresa diventa provocazione. C'è una emancipazione lirica che dà troppo peso
alla fatalità. Il caso rappresenta l'ingrediente fondamentale, che praticamente
rende l'artista solo un mediatore. Ne limita la presenza, ne riduce la portata.
Per questo ti dico che il caso lo accolgo. Credo che, nell'arte come nella
vita, il soggetto abbia una forte valenza decisionale. Le cose capitano, ma sta
all'individuo saperle interpretare e farne uso nell'esperienza. Eppure, se ci
penso, spesso il caso lo cerco. Ma come fai? Più il caso lo cerchi e più non lo
trovi. Voglio dire, nel momento in cui mi accorgo di sperare che il caso mi
colga, che possa incontrare ancora quella ragazza che per caso, appunto, ho
visto un giorno sull'autobus, ecco che questo non succederà. La incontrerai, forse,
ancora, quando meno te lo aspetti. Perché la magia si rivela tra le pieghe del
quotidiano, è un imprevisto. Se fossi lì a cercarla, non si tratterebbe più di
magia, ma di un evento che arriva come causa di una intenzione. E allora si
rompe l'incanto.
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Senza titolo #5, serie Impossible Nature,15 x 19 x 4.5 cm, 2014 |
Francesca: Avverti una
necessità di andare incontro allo spettatore, come mai? Non ritieni che in ogni
forma di visione vi sia un incontro, o comunque una possibilità?
Alex: No, spesso l'incontro con l'opera è una possibilità preclusa
allo spettatore. Appunto, guarda, stiamo parlando di “spettatore” che è un
termine di derivazione teatrale e poi preso in prestito dalla televisione. In
entrambi i casi c'è una funzione passiva. Sono situazioni che relegano il
pubblico alla funzione di referente dello spettacolo, inteso come
intrattenimento: il dialogo tra messa in scena e destinatario è unidirezionale.
Nell'arte visiva l'osservatore, che è un termine che preferisco perché rimanda
più alla possibilità da parte dell'individuo di analizzare, di conoscere meglio
ciò che gli è davanti, questa funzione “attiva” non è sempre scontata. Ovvio,
dipende molto dallo stesso osservatore e dalla sua abilità nel sapersi mettere
in gioco, ma è pur vero che l'arte contemporanea, soprattutto quella più
concettuale, spesso esclude il pubblico. E al pubblico va bene così, in fondo
comporta meno fatica. Ad ogni modo a me piace che i miei lavori pongano
chiunque decida di stabilirci un dialogo, nella condizione di potersi muovere
intorno, entrare dentro per capirne il senso. È la tridimensionalità: devi
sporgerti di lato, chinarti in avanti, affinare lo sguardo e accorgerti di un
dettaglio nascosto dietro. Se aspetti che l'opera ti arrivi sola e ti parli non
succederà. Quindi è un incontro non solo in senso lato, metaforico, ma anche
nella sua accezione più diretta: la lettura del lavoro è condizionata da questo
gioco di ruoli. Lo spettatore è chiamato a dialogare anche fisicamente col
lavoro. Che poi ci sia comunque una forte dose di narcisismo nel quale l'opera
si pone come qualcosa di inarrivabile è ovvio, perché sono lavori sotto una
vetrina, su un piedistallo. E in fondo l'arte è questo (esclusa forse solo
quella relazionale): c'è sempre una certa dose di vanitas. I miei lavori amano
lasciarsi ammirare. È come guardare delle puttane dietro le vetrine di
Amsterdam. Diciamo che lanciano un'esca, se ne sei attratto abbocchi.
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Variazione barocca #2, serie Impossible Nature, 20,5x20,5x7cm, 2014 |
Francesca: Rifiuto della
bidimensionalità… motivo?
Alex: Ho sempre cercato
delle strade diverse. La pittura è un linguaggio così consolidato, è un rituale
definito, magnifico, ma definito, che in qualche modo obbligo l'artista a
rimanere entro percorsi già battuti. Ho una formazione pittorica, ma ogni volta
che mi rapporto con la tela proprio non riesco. Ho bisogno di andare oltre. È
stato così fin dal primo giorno in accademia, ho sempre avuto la tendenza ad
uscire fuori dalla superficie, e soprattutto a raggirare i limiti che in
qualche modo, credo, la tradizione ti impone se vuoi fare pittura. Questo
aspetto della tridimensionalità mi ha sempre attratto. Qualche mese fa, salendo
in mansarda a casa dei miei, ho trovato un regalo fatto a mio padre per la
festa del papà almeno una ventina di anni fa. E la cosa incredibile è che la
dinamica del lavoro dietro questo oggetto infantile era la stessa di oggi: una
base con delle figure poste su tre piani: in primo piano delle sagome
ritagliate da una foto di me e mio padre che ci abbracciamo, incastrate alla
base con degli stuzzicadenti; dietro, delle immagini ritagliate da libri di
illustrazione; sullo sfondo una specie di paesaggio; e dall'alto, attaccati con
dei fili, coriandoli che rimanevano a mezz'aria. In questo esempio, che era
semplicemente un regalo uscito dalle mani di un bambino, c'era già tutto quello
che sarebbe tornato durante gli anni in accademia. Questo aspetto scenografico,
questa somma di elementi personali che si mescolano ad oggetti estratti da
altri contesti, per non parlare dell'uso dei materiali poveri, che ancora
preferisco. In accademia ho scelto comunque pittura perché non c'è altra arte.
Lo dico un po' come provocazione, ma la pittura si pone su un livello che
sorpassa ogni altro linguaggio ai miei occhi. Tutto si riconduce alla pittura,
non c'è storia. Ma ogni volta in cui ho provato, perché ho sempre desiderato
fortemente essere un pittore, il dipinto non mi ha mai soddisfatto. Ammiro chi
riesci a far rientrato tutto quello di cui ha bisogno all'interno di una
struttura definita, piana, ma a me serve andare oltre. Ho dozzine di tele con
attaccati giocattoli, foto, pezzi di cose e scarti. Ma neanche quello era
abbastanza. Allora piano piano ho lasciato perdere, ho iniziato a lavorare
dentro dei cassetti che trovato per strada, dipingendo sul fondo e
tutt'intorno. Poi ho iniziato a sommare elementi dentro questi cassetti ed è
nato il primo box, nel 2012. Mi piaceva tantissimo, perché mi sembrava di aver
fatto qualcosa di diverso.
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Ziervogel #2, serie Impossible Nature, 33 x 23 x 11 cm, 2015 |
Francesca: Che rilevanza dai
alla scenografia?
Alex: Non mi interessa il teatro come arte, se questa scenografia
si riflette nei miei lavori è solo una questione compositiva. Mi piace quando
tutto riporta, quando gli spazi si compensano, i vuoti e gli spazi pieni
dialogano. È una questione di puro equilibrio estetico.
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Ziervogel #3, serie Impossible Nature, 33 x 23 x 23 cm, 2015 |
Francesca: Per “definire” i tuoi lavori utilizzi la
parola teatrini, spiegami… io considero l’impianto scenografico classico una
gabbia dove in fondo non si è mai cercato un ruolo attivo con il pubblico…il
mondo era ricostruito tra le quinte e il sipario e tu lo guardavi dal tuo
posto.
Alex: Sì, e torniamo a ciò che dicevamo. Quando li chiamo teatrini
lo faccio per rimandare soprattutto a questo aspetto scenografico. Non so,
forse ho una mancanza di sostantivi adeguati a descrivere i miei lavori, e
quello di teatrino mi sembra il più adatto o suggestivo. Qualcuno mi ha addirittura
fatto notare che i miei sono lavori molto “italiani” perché richiamano alla
tradizione delle marionette e dei teatri di strada. È una considerazione che mi
è piaciuta, anche se l'idea di fare un'arte italiana lì per lì mi ha
spaventato, perché considero ovviamente l'arte nel suo valore universale. È
vero quello che dici quando parli di funzione passiva. Come ti ho detto nelle
mie opere mi piace tentare lo spettatore chiamandolo ad alzarsi dalla sedia e
andare oltre la sua postazione. In questo caso la funzione è attiva nel senso che
l'osservatore è chiamato ad entrare, a scorgersi dentro. Poi gli attori restano
tali, le immagini ritagliate e poste in quel preciso modo hanno una funzione
chiara che devono compiere; l'osservatore non è chiamato a salire sul palco,
non faccio arte relazionale; ma per lo meno invito lo stesso a non rimanere
immobile, lo sollecito a cercare individualmente il punto di vista che più
preferisce, e dunque l'interpretazione che meglio riflette il suo sguardo.
Forse raggiungo il teatro se parliamo di scherzo, di finzione, qualcosa che
tradisce le aspettative. Il teatro è manipolazione, è una proiezione illusoria
di qualcosa. È un contenitore di storie. In questo caso l'accostamento dei miei
lavori ad una pièce teatrale mi piace, è molto evocativa. Ma ovviamente stiamo
parlando, al massimo, di un teatro delle maschere o meglio ancora di un teatro
surrealista, il quale ha una carica onirica che attinge dalla realtà ma va
oltre.
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Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature, 28 x 20 x 8 cm, 2014
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Impossible nature (omaggio a Cornell), serie Impossible Nature, 28 x 20 x 8 cm, 2014 |
Francesca: Nelle interviste
sottolinei spesso il fatto che le tue opere abbiano “la capacità di contenere
il reale in base alla soggettività”; non pensi che questo dovrebbe essere
insito in ogni opera e anche nella vita degli individui? Lo sottolinei perché
secondo te dovrebbe esserci ma non c’è di fatto?
Alex: Quando lo dico non mi metto su un piano di paragone con gli
altri artisti, ribadisco semplicemente quella che è una mia personale
necessità: dare degli indizi della mia esperienza all'interno di questi
elaborati. In genere direi di sì, ogni opera riflette in qualche modo la soggettività
dell'artista, ma questo forse si intuisce solo guardando la ricerca
dell'artista sulla lunga distanza. Penso ad uno come Damien Hirst e ai suoi
lavori con i pallini colorati. Lì la soggettività è apparentemente ridotta a
zero, sono dipinti potenti ma statici, eppure, se vedi il personaggio
abbracciandolo nella sua interezza, sposandone la filosofia, puoi intravedere
la sua figura dietro queste opere. Voglio dire che, anche se non è sempre
percepibile in modo diretto o immediato, credo di sì, l'individuo è vivo dietro
il suo lavoro. Io spesso inserisco frammenti personali dentro le mie opere,
perché l'idea è quella di lasciare tracce. Non sono sempre visibili; a volte
questi elementi sono nascosti: una foto incollata sul retro, un appunto scritto
a mano... è come se volessi confezionare l'opera descrivendola come il
risultato di un momento preciso. In accademia per esempio ho sempre avuto una
gran difficoltà a lavorare in aula, era un po' una sorta di trauma, e invidiavo
molto chi riusciva a vivere l'arte come qualcosa di pubblico. Io personalmente
l'ho sempre vissuta come un processo liberatorio ma molto intimo, come scrivere
un diario: il mio studio era e ancora è la mia cameretta, non riesco a
dividermi dallo spazio in cui vivo, proprio perché quello spazio mi conosce ed
è l'unico posto dove riesco ad essere naturale nel momento in cui creo. Quindi
vedi che è ovvio parlarti di soggettività. Altro esempio: non sono uno che
riesce a lavorare se questa urgenza non viene fuori: a volte passo giorni
interi bloccato, e li passo a leggere o documentarmi, perché con le mani non
riesco a far niente. Poi arriva la botta, sale e corro a lavorare. È una cosa
mia. In ogni sua forma, devo essere dentro al lavoro.
Marzo 2016
Alex Urso: (n. 1987) lavora prevalentemente con la tecnica del
collage e dell'assemblaggio. Laureato in Lettere e Filosofia presso
l'Università degli Studi di Macerata. Diplomato in Pittura presso l'Accademia
di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in
gallerie e spazi pubblici tra Italia e Polonia. Attualmente vive e lavora a
Varsavia, dove porta avanti la sua attività di artista e curatore indipendente,
scrivendo di arte e cultura contemporanea per riviste di settore.