sabato 15 febbraio 2014

Annabella Cuomo, "Spaventevole".

La personale SPAVENTEVOLE di Annabella Cuomo è una selezione di cinque serie di lavori differenti, dove l’artista pugliese s’interroga e racconta la memoria, che come dice lei parte dall’  “Assenza … tutto lo scorrere del tempo e il tempo in sé; tutto ciò che scaturisce da esso e come l’uomo cerchi di affrontarlo”. Concetto che s’interseca e prende forma dall’archivio fotografico di famiglia e dal disegno in bianco e nero, dai libri di botanica e d’anatomia appartenuti al padre. Le tecniche usate dall’artista variano dal tratto asciutto del pennarello nero, all’interevento manuale direttamente su fotografia, alle rielaborazioni digitali e le sovrapposizioni analogiche.
La storia familiare, fatta di luoghi persone e rimandi culturali dell’Italia meridionale, diviene per la Cuomo un punto fermo da cui partire per comprendere il presente.
L’artista non ha passato giorno che non vagasse nelle vicissitudini della sua storia, attraverso i racconti dei suoi familiari effettuati nel presente, ad un tratto s’imbatte in un cortocircuito temporale. Nella mente della Cuomo il tempo subisce uno sdoppiamento: l’ieri si manifesta nell’oggi; il passato e il presente non sono più linee parallele, ma s’intersecano divenendo un corpo unico che lei porta alla luce attraverso le sue opere.
La scelta di utilizzare fotografie di persone conosciute e di luoghi in cui ha vissuto non è casuale, queste riportano all’oggi il suo passato congelato in una stampa.
Le azioni di cancellazione manuale dell’immagine e la sovrapposizione di scatti dell’ieri con quelli dell’oggi, non sono altro che espedienti per coniugare il passato e presente; dei conduttori temporali che ci restituiscono la lettura del presente dell’ artista: un presente inscindibile dal suo passato. Sono operazioni artistiche volte alla ricerca della rappresentazione del tempo nella sua pienezza, la presa di coscienza del suo scorrere e lo spaesamento che ne comporta vivendolo . Da qui il titolo della personale, per certi lati ironico: SPAVENTEVOLE.
.
Dalle cinque serie dei lavori in mostra si percepisce la riflessione sul tempo e la sua sacralità.
Nella serie “Animali Di Giugno” la Cuomo narra il trapasso. Disegnando simboli surreali che si sacrificano in un rituale religioso, l’artista, rappresenta il momento di un’azione finale di un rito sacro e coglie la bellezza del flusso della vita che se ne va, e la luce della vita che rimane.
Nella serie “Se non l’hai mai visto, non vuol dire che non lo vedrai”, nata dalla residenza a Rotterdam, l’artista progetta un tentativo di relazione tra i suoi familiari e il paesaggio urbano olandese a sottolineare che la temporaneità e la spazialità sono concetti fluttuanti. Troviamo un ambiente post punk, dove si respira l’aria buia e nebbiosa della metropoli del nord e dove potrebbe esserci in sottofondo la musica amata dall’artista: “Fire in Cairo” dei Cure o il suono industriale degli Einsturzende Neubauten.
Attraverso la visione delle opere ri-viviamo la sua esperienza di Rotterdam racchiusa nelle fotografie, conosciamo la sua famiglia; a sua volta i famigliari lontani ri-vivono nei luoghi olandesi dell’artista grazie alle sovrapposizione fotografiche.
Una matrioska visiva che racchiude le differenti spazialità, le oscillazioni temporali e i diversi gradi di conoscenza in un unico frame.
Tutta la memoria della Cuomo si manifesta nel nostro presente e se non l’hai mai visto, non vuol dire che non lo vedrai …
 .
Attraverso la cooperazione d’idee, tra l’artista e noi curatori, é nata la performance che prenderà forma il giorno dell’inaugurazione.
Il pubblico della mostra diventerà parte dell’opera interagendo con il paesaggio, luoghi cari all’artista, proiettato su parete. Cuomo scatterà in diretta delle fotografie creando dei frame unici che saranno stampati, firmati e installati sul momento. L’azione si ispira alla serie “Necessary Recostruction”.
Francesca Pergreffi, Michael Rotondi,
febbraio 2014






Veronica Azzinari, "Passaggi".

PASSAGGI
“Un mio disegno non pesa mai più della carta che lo ospita”, con queste parole Veronica Azzinari racchiude tutta la sua poetica.
L’artista, nel nuovo ciclo di lavori calcografici, ci mostra il suo paradosso costante: la rudità del tratto e l’evanescenza spaziale e temporale dell’atmosfera.
L’Azzinari genera mondi abitati da figure iconiche, scarne e taglienti a tratti rupestri, che rimandano a simbologie interiori collocate in una sospensione temporale e spaziale, metafisica.
Un universo aereo spezzato senza una continuità narrativa; piccoli frammenti di epifania che sfiorano la sacralità senza avere mai la pretesa di raggiungere la religione. Si compiono PASSAGGI.
Passaggi tecnici: la stampa dalle matrici di rame, quindi l’urto della punta d’acciaio che incide l’altro metallo e, dopo lo scontro, rimane sulla carta l’immaginario surreale ed effimero dell’artista.
Passaggi interiori: “Passaggi sta ad indicare l’attraversamento del mio mondo onirico da parte di personaggi che non creano storie ma illuminano solo piccole zone di un inconscio profondamente collegato a epoche lontane e alla sacralità del corpo umano e del suo significato simbolico. Sono passaggi di angeli messaggeri che portano con sé codici che non ho mai voluto decifrare”, dice Azzinari.
Passaggi mediatici: suono-musica, acciaio-carta, immagine-visione.
Dopo aver compiuto un passaggio visivo sulle opere dell’artista rimane l’interrogativo: un disegno non pesa mai più della carta che lo ospita?
Francesca Pergreffi


Michael Rotondi e Giulio Zanet, "Loveless".

Tra cuore e carne – Loveless nasce prendendo spunto dal titolo del celebre disco dei My bloody Valentine, e si sviluppa come una ricognizione su due modi di vivere l’amore: romantico e pornografico.
Michael Rotondi e Giulio Zanet si confrontano e s’interrogano, partendo dal loro vissuto personale, analizzando le loro esperienze passate e presenti. Compongono una sorta di diario visivo della loro intimità e dei loro diversi modi di amare; un’oscillazione perpetua tra cuore e carne.
Le poetiche dei due artisti dialogano e s’intrecciano sulla parete, attraverso un excursus di cento opere, fornendo una visione unica di due approcci amorosi apparentemente antitetici dove il sentimento si “sporca” con l’erotismo e lo “sconcio” diventa amore. Due modi di relazionarsi che, intersecandosi in maniera dialettica, confluiscono in un’unica concezione dell’amare, scoprendosi indispensabili e necessari l’uno all’altro.
Il progetto dei due artisti Michel Rotondi e Giulio Zanet è il simbolo della coralità dell’amore nella pratica e nella visione dell’Arte. Loveless è un pentagramma amoroso che orchestra, in una perfetta armonia, diversi soggetti che generosamente hanno donato la loro esperienza e si son lanciati in una dialettica feconda per amore dell’Arte. Esso è il frutto della relazione, del dialogo, della cura e della condivisione.
È stata una chiamata all’Arte spontanea; gli artisti mettendo al mondo le loro opere hanno suonato una nota e persone coraggiose hanno baciato la loro paura, ponendosi in discussione hanno dato il via a un’amplificazione della nota. L’arte e l’extrartistico si son uniti in un unico meccanismo e hanno acceso il motore roboante della visione artistica.
Loveless è un atto d’amore, la possibilità di coesistenza di più linguaggi in un’unica concordanza; un esempio in cui due artisti, uno scrittore, una curatrice e critica d’arte, una critica d’arte e curatrice, tre grafici, una fotografa e videomaker, hanno creato un legame tra loro, rendendosi necessari gli uni agli altri, parlando il loro linguaggio autonomamente si sono uniti in solo progetto: opere, allestimento, mostra, testi, catalogo, reportage, video.
Lo spettatore avrà un ruolo attivo all’interno del progetto. Infatti, potrà entrare in relazione con le opere e la poetica degli artisti e riflettere sul fatto che “l’opera d’arte – come scrisse Carla Lonzi – è una possibilità d’incontro e un invito a partecipare e (…) se l’arte non è nelle mie risorse come creazione, lo è come creatività, come coscienza dell’arte nella disposizione del bene”.
Loveless è una nota che ha dato il via a un eco di voci che sarà esposta per la prima volta a Carpi allo Spazio Meme, e proseguirà in altri spazi e in altri tempi.

Francesca Pergreffi
settembre 2013


Conversazione tra Francesca Pergreffi , Michael Rotondi e Giulio Zanet.

La scelta dei My bloody valentine come colonna sonora ha un significato particolare?
M.R.: “Il disco “Loveless” è fantastico, uno spaccato generazionale.
Inoltre sia il nome della band che il titolo del loro lavoro più celebre é in sintonia col nostro 
progetto: “Senza amore” e “il mio cuore insanguinato”. Valentina come simbolo del cuore, e della 
sofferenza nel caso del nome della band. My bloody valentine è un documento verbale e poi visivo 
del paradosso amoroso. La conseguenza di una fine che uccide il cuore e per dimenticare reagisce 
o chiudendosi tra le proprie cose o facendo sesso fino a schiacciare e polverizzare il ricordo. Si ha 
avuto amore, si é amato e di risposta a ciò o ci si isola nella malinconia, o si cerca di colmarlo 
attraverso l’eros.”
.
Loveless è una provocazione? Il punto di partenza del vostro diario o il punto d’arrivo?
M.R.: “Loveless è provocatorio; è la partenza e l’arrivo; un cerchio.”
G.Z.: “ Loveless è una provocazione. L’amore salverà il mondo” 
.
Secondo voi c’è il confine tra carne e cuore?
M.R.: “Quando non c’è, è amore vero”
G. Z.: “Esiste sicuramente un confine tra carne e cuore ma la meraviglia sta nello sconfinamento.”
Dov’è che inizia, se per voi esiste, la fase di “contaminazione” tra l’erotismo e il sentimento? 
M.R.: “Quando si ama si annulla automaticamente l’ eros, la “ sporcizia” e il sentimento . Si 
annullano le tre differenze e diventano una cosa sola.” 
G.Z .: “Erotismo e sentimento si contaminano in continuazione per quanto mi riguarda.”

Nella vostra analisi c’è una definizione, una risoluzione finale, o rimane una vivisezione accurata di 
un disordine emotivo carnale e spirituale; di un’oscillazione a cui ancora a oggi, non vi è una 
formula?
M. R.: “Il disordine é la parola chiave, quello é l’inizio del sentimento e del tutto. Mente nel kaos e 
brividi sulla pelle. Non ci sono formule ma molteplici punti di vista personali, estratti di vita 
vissuta”.
G.Z.: “Non esiste una formula: è un mistero senza soluzione la riuscita degli elementi.”


Maggio 2013








.

Arianna Vairo, "Confabulazioni".

Arianna Vairo è una ragazza febbrile sempre in movimento con i piedi, con gli occhi, con la mente, e dopo aver fagocitato il mondo, si sofferma e lo ri-elabora.
Questa sua famelica febbre la conduce sempre a nuovi lessici e nuove grammatiche; la personale CONFABULAZIONI ne è un esempio. Arianna ha sentito il bisogno e il desiderio di affrontare una nuova personale struttura narrativa ed ha dato il via ad una serie di “esperimenti”, come lei li definisce.
Gli “esperimenti” che compongono CONFABULAZIONI, sono prismi dai colori vibranti e contrastati, che si relazionano l’uno all’altro e mutano sotto lo sguardo di chi li guarda.
Qui di seguito la mia intervista ad Arianna Vairo.
.
Il titolo della mostra è “Confabulazioni”, disturbo psichico che a volte porta con sé atteggiamenti euforici di tipo infantile. I tuoi nuovi lavori colmano le lacune della mente inventando dei falsi ricordi, o semplicemente offrono una visualizzazione altra del ricordo, delle sfumature sfuggite o punti di vista differenti?Il titolo è un espediente, un contenitore dentro cui poter plasmare ricordi veri, falsi ricordi ed immagini mentali. Più che al disturbo vuole rifarsi al meccanismo di costruzione di associazioni, come un circuito non lineare.
La luce propria dell’illustrazione è come fosse il ricordo, il pensiero, entra dentro la griglia che permette la narrazione nel fumetto, come fosse un prisma, e si scompone, per essere poi ricomposta da chi guarda, secondo la propria “esperienza”, memoria e sentimento.
Come è nato il ciclo dei tuoi nuovi “esperimenti”?È nato da speculazioni sulla narrazione, dal desiderio d’immagini cinetiche all’interno delle quali far muovere diversi elementi, velocemente, come fossero associazioni di pensiero che si concatenano l’una all’altra per formare una sensazione, un ricordo.
Il primo approccio è stato molto libero, e ho cercato tutte le condizioni per essere comoda e ascoltare l’intuizione: nessuno schizzo, grandi dimensioni, nessun limite di colore.
Poi ho iniziato a inserire negli esperimenti qualche condizione, provando a illustrare un testo, o proseguendo in una serie, oppure eseguendo un ritratto.
In una terza fase sto prendendo testi o riferimenti reali per poi riportarli all’immagine senza condizioni narrative, o illustrative, unendo in qualche modo le due fasi precedenti.
Nei tuoi ultimi lavori vi è una narrazione concentrata, un micro/ racconto, che prende le distanze sia dalla tavola del fumetto, sia dall’illustrazione e tenta una nuova strada. Nelle tavole i corpi non sono più i soli protagonisti della scena, lo sfondo avanza e si fa pieno di elementi dettagliati. Non si può parlare di sfondi, sarebbe riduttivo, ma di piani dell’immagine dove tutto concorre in maniera egualitaria alla comprensione e visione totale del soggetto. Qual’è dunque la tua nuova strada? Mi vuoi parlare dell’assetto narrativo?Sono alla ricerca del movimento nell’immagine. Il fumetto è il linguaggio grafico che più si avvicina al cinema (a sua volta linguaggio che più cerca di avvicinarsi alla lettura del movimento della vita); mentre l’illustrazione ha la capacità di penetrare l’inconscio, l’irrazionale e di portarli a galla; trasmettere il surreale, l’iper-reale, o l’onirico.
Non sto cercando una struttura narrativa lineare ma costituita da molti piani, nei quali potersi muovere per passare da uno all’altro senza spiegazioni e mescolare diverse dimensioni (temporali ad esempio) in un’unica spaziale.
Dov’è collocata la percezione dello spettatore nella struttura del lavoro?La percezione dello spettatore può riconoscere gli elementi che preferisce, il piano di lettura in cui si sente più comodo e attivarsi, come di fronte a un simbolo, non ricevere il micro racconto, ma ricostruirlo attraverso la composizione degli elementi, in libertà.
Il colore trionfa ed è disposto a contrasto. Hai utilizzato acrilico e gouache, che conferiscono all’opera un aspetto compatto, uniforme e vellutato dai toni brillanti. Mi spieghi questa scelta?Da sempre ho dato molta attenzione ai materiali con cui lavoro, non si può fare a meno di ascoltare la materia per viverla come una compagna e non come un impedimento. Nell’incisione questo processo artistico è molto chiaro: la sintesi di un concetto, o di un’immagine mentale completamente libera deve passare attraverso il legno, il linoleum o il metallo per farsi segno, perciò è inevitabile la necessità di conoscere i materiali, di rispettarne tempi e condizioni, e soprattutto essere presenti e pronti nel momento dell’azione per cogliere i cambiamenti e gli eventuali errori.
In questo caso, il mettermi di fronte una palette molto ampia è servito a stimolare il mio ascolto: l’acrilico ha tempi di asciugatura brevissimi ed è completamente coprente, perciò permette di poter continuare a costruire raccogliendo l’errore e di utilizzarlo come nuovo spunto.
Visivamente i colori risultano a contrasto entrando in relazione tra loro, proprio perché ogni colore esce dall’altro.
Francesca Pergreffi





Virginia Mori, "Specchio Riflesso".

La mostra SPECCHIO RIFLESSO di Virginia Mori è composta da una serie di disegni e sketches realizzati con uno strumento semplice e preciso: una penna bic nera.
Essi appaiono fissi, immobili, minimali, nella loro nettezza e semplicità, non per questo incolori: l’autrice con il suo tratto veloce e immediato crea una vasta gamma di sfumature del nero.
I soggetti della Mori sono un mezzo che lei utilizza per comunicare idee, sensazioni, metafore di ossessioni private, sollecitare interrogativi e incubi infantili.
Il protagonista della sua narrazione è l’insieme e non il particolare.
I disegni sono tante inquadrature isolate, silenziose, che legate tra loro da un filo invisibile, evocano in maniera tagliente e senza tanti ghiribizzi un’atmosfera irreale ed onirica, impalpabile. Sono visioni fantastiche e tuttavia crude, inquietanti a tratti grottesche, in cui non vi è nulla di confortante, di gioioso o giocoso; il magico in Virginia Mori è l’astrazione.
Il titolo della mostra: SPECCHIO RIFLESSO è denso di significati che spaziano dal gioco infantile in cui il bambino riproduce le pose dell’altro ed essere il suo specchio; alla filastrocca efficace arma dialettica di difesa contro gli sberleffi che vengono rispediti al mittente; alle diramazioni simboliche dello specchio, che arricchite dal termine “riflesso” emanano subito suggestioni di visioni di mondi nascosti.
SPECCHIO RIFLESSO
 è una breve pausa dalla realtà.
Francesca Pergreffi







Giuseppe De Mattia e Francesco Locane, "Una leggera corrispondenza".

Avete voglia di raccontarmi come nasce il vostro progetto e come si articola?Tutto nasce da una convivenza in una casa di studenti universitari, anni fa, durata per un paio di anni. Da quando abbiamo lasciato quel tetto comune, per i casi della vita, ci siamo sempre avvicinati e persi di vista subito dopo. Ci siamo sempre “seguiti”, anche se a distanza. La corrispondenza del titolo è nata dall’esigenza di stabilire un contatto, ognuno con il proprio linguaggio. E così è nato questo progetto.
Il tutto parte prima dalla parola scritta? Dall’immagine? O non esiste un prima o un dopo e per coincidenze remote s’incontrano e “nascono” insieme?Sin dall’inizio ci siamo posti l’assenza di regole e di scadenze: ma, di fatto, sono state le fotografie a “stimolare” il racconto, tranne che in un caso. Questo però non è così importante. Il fatto è che comunque il racconto era poi inteso naturalmente come una “fotografia mancata”, una fotografia accanto alla fotografia. Una fotografia della fotografia. D’altro canto spesso le immagini hanno influenzato la focalizzazione, non necessariamente legata al punto di vista della fotografia: molti dei personaggi dei racconti nascono da uno sguardo attraverso il quale i personaggi stessi sono stati narrati.
L’immagine fotografica nella tavola è collocata prima del testo: è un’indicazione di lettura da parte vostra per lo spettatore?In genere vogliamo dare la massima libertà di lettura alle opere esposte. Come abbiamo detto, spesso il testo è nato dall’immagine: ecco perché quest’ordine. Ogni racconto nasce dall’individuazione di una sorta di punctum, poi trasformato in spunto per una storia breve che talvolta ha rispecchiato lo stato d’animo che Locane aveva al momento della ricezione. E dal momento della ricezione passava del tempo e quindi il racconto risente anche del trascorrere di questo tempo. Una delle volontà della mostra è dimostrare l’esistenza di un limite della fotografia, che sottostà alla riflessione rapida prima dello scatto. Al contrario, il testo ha tutto il tempo di svilupparsi, dalla ricezione del testo, alla sua stesura, alla sua correzione, ecc. La casualità del testo (in quanto elaborato da un’altra persona rispetto all’immagine) restituisce all’immagine qualcosa che la arricchisce.
Mi colpisce molto l’equilibrio delicato che avete creato in ogni tavola; ogni cosa è necessaria e autonoma al contempo, dialoga con l’altra rimanendo fedele alla propria struttura-natura; ogni elemento concorre discreto e silenzioso per dare una visione unitaria finale … mi ricorda molto una partitura musicale… Esiste, a prescindere dalla natura del progetto, un filo conduttore tra le varie tavole-mondi? Vi è insomma un’altra partitura che orchestra il tutto?Esistono partiture infinite! Ognuno vede e applica il registro che ritiene migliore per godere la coppia testo/fotografia. Il testo è oggettivo e dice quello che c’è scritto, ma la fotografia no, quella si può leggere come si vuole. Il testo suggerirà una lettura che sfonda i limiti della fotografia, ma ognuno poi può ulteriormente sconfinare dai limiti dell’immagine.
Vi ho visto un’ulteriore “leggera corrispondenza”, un gioco di rimandi infinito dove ogni tavola, così come ogni singolo pezzo scritto e ogni singola immagine fotografica può esistere autonomamente ma non sceglie di farlo, per far parte di un nuovo mondo necessita dell’altra senza snaturarsi. L’uso del passepartout tra immagine fotografica e testo serve a rimarcare sia “una leggera corrispondenza” sia la natura dei differenti medium?Il passepartout è un elemento che cerca di uniformare e non di dividere i due linguaggi. La finestra ha quasi le stesse dimensioni e il testo è parte integrante dell’opera. È opera stessa, indivisibile dall’immagine. Per accentuare la singolarità del testo, questo è dattiloscritto e quindi si tratta di un unicum, irripetibile nella stessa forma. È più unico dell’immagine che invece è riproducibile all’infinito se solo si volesse. Siamo abituati a vedere il testo abbinato alla fotografia solo come didascalia e quindi come testo esterno alla cornice, qui è il contrario.
La scelta delle cornici di legno naturale sembra riecheggiare una sensazione di calore quasi a voler porre l’accento sul mondo privato che racchiude ogni tavola …Esattamente. Il legno naturale, senza nessuna vernice, nemmeno trasparente, riporta questi oggetti a una dimensione calda, domestica e familiare, così come questa corrispondenza.
Che colonna sonora suggerite per la visione di Una leggera corrispondenza?La colonna sonora che il musicista Egle Sommacal ha composto per ogni singola coppia. La corrispondenza del titolo si è rafforzata ulteriormente quando Egle ci ha fatto sentire i brani per la mostra. Giuseppe ed io ci siamo trovati immediatamente d’accordo sull’accoppiamento musica-storia: richiamavamo alla mente la coppia a cui ci riferivamo usando indifferentemente riferimenti alla foto o al testo che la componevano.
Grazie per tutto …Grazie a voi!
Francesca Pergreffi




Paolo Parisi, "Back to Soul".

La mostra racchiude una cinquantina di ritratti, eseguiti a pennello secco, delle grandi Signore della storia della musica blues e jazz.
Una galleria cronologica che va dalle icone sacre come Billie Holiday e Nina Simone fino alle voci meno note della storia del blues femminile, attraversando decadi e generi diversi dal blues del delta, al gospel, fino al soul degli anni sessanta e alle contaminazioni con il jazz passando per lo swing e le big band. Un tributo realizzato da un vero appassionato della materia che prende in considerazione non solo voci leggendarie, ma anche grandi strumentiste e compositrici come Lil Hardin Armstrong e Mary Lou Williams.
Son illustrazioni che in maniera incisiva ed essenziale arrivano al cuore dei soggetti ritratti. Parisi, non divaga su dettagli inutili, ma si concentra sull’essenziale, ogni cosa è funzionale e necessaria, non c’è un di più, regna il perfetto equilibrio della composizione e delle linee.
Son tratti nudi che a volte pur concedendosi qualche ombreggiatura, vogliono riprodurre donne nella loro essenza, senza fronzoli e orpelli.
Lo sguardo dell’artista non ha mediazioni, arriva al nucleo e propone una visione che è ben lontana da un gesto d’ adulazione e da uno sguardo lezioso nei confronti dei suoi soggetti.
In una “piccola” illustrazione riusciamo a cogliere, o per lo meno ci piace pensarlo, tutta la personalità e la storia che si cela dietro a quel corpo-volto anche quando è descritto in maniera molto sintetica.
È un atto d’amore da parte di Parisi verso queste donne e artiste; cogliendole con sguardo apparentemente severo che non concede nulla, fa riaffiorare la loro l’eleganza, la loro vibrazione, la loro fierezza, la loro energia, il loro soul.
Una serie di “istantanee” al tratto che bloccano le eroine del blues in pose elaborate e mai banali, ritratte nel bel mezzo d’intense performance vocali e strumentali, ma anche in atteggiamenti più rilassati e colloquiali, primi piani su volti dall’intensità magnetica.
L’essenzialità del segno nero fluido e corposo di Paolo non ha però nulla a che vedere con il minimalismo, al contrario, convive tranquillamente con la capacità di descrivere il particolare tanto che, quando posiamo lo sguardo sulle linee apparentemente scarne con cui sono tratteggiati strumenti musicali, scorci di sale d’incisione e di palcoscenici, vestiti ora vistosi, ora castigati, ci viene svelata la vivacità e la complessità di questi personaggi e del mondo a cui appartenevano.
Questa mostra è un altro omaggio dell’artista a quello che più lo appassiona: “Il jazz, la black music e in generale la cultura afroamericana”; già l’aveva dimostrato con il libro “Coltrane” e i lavori realizzati per la Soul Jazz Record.
Il blues così come il jazz sono linguaggi che hanno molto da spartire con il fumetto, erano e sono generi popolari che hanno sviluppato codici espressivi raffinati e complessi; espressioni artistiche nate oltreoceano alla fine dell’Ottocento la cui natura ibrida a metà strada fra arte pura e genere di intrattenimento ne rende spesso difficile la collocazione.
Nei disegni di Paolo Parisi questo legame sembra trovare un’ ulteriore conferma.
[Francesca Pergreffi e Filippo Bergonzini, Aprile 2012]





Marco Demis, "Nuvole".

Il lavoro di Marco Demis si fonda sulla tensione fra l’espressione e il non detto. I soggetti sono bambine, ritratte come bambole aristocratiche dalla pelle color latte, dagli abiti retrò e dallo sguardo languido e stupito. Una umanità ingenua e ambigua, colta nella sua intima fissità priva di referente. Le figure sono sospese in uno spazio cupo e indefinito, sovrastato da un cielo plumbeo, privo di avversione o familiarità. Gli alberi sono secchi arabeschi, il terreno è freddo e coperto di brina, le case sono vuote e lontane. Ideali senza essere astratti, i soggetti si rapportano talvolta ad oggetti singolari e simbolici, dall’enigmatica utilità. Vecchi giocattoli di legno, gabbie di ferro, contemporaneamente vicini e distanti dal soggetto.
Nelle opere emerge una apparente ripetizione sul piano dei contenuti. La confidenza col linguaggio nasce dalla ricorrenza, conoscere è ri-conoscere. E il valore del soggetto ripetuto non sta nella sua identità (non ne possiede una) ma nel suo differenziale. Si evince in questo modo la qualità nella variazione dallo stesso tema, la bellezza da un criterio di confronto che vuole essere oggettivo. Cosa che invece non succede nel soggetto “inusuale”. L’insistenza sul soggetto che diventa “usuale” permette di far scaturire quella che Derrida definisce la “differenza irriducibile”. In mancanza di una costrizione, di una serialità la differenza è indifferente.
La personale raccoglie una serie di opere su carta, intitolata “Nuvole” per l’apparente levità dei temi, l’agilità del segno, l’aggrovigliarsi di segni cupi e leggeri. A differenza dei lavori su tela la scrittura pittorica si fa più briosa e licenziosa, incespicando divertita in tratti infantili.
.
.
Quanto influisce sul tuo lavoro la tua “natura” d’architetto?
Mi interessano molto il discorso fra struttura e decorazione, la concezione simbolica dello spazio e del paesaggio.
.
Che significato ha per te la parola “epifania”?
Credo che l’opera seduca in quanto “apparizione”. Guardando i miei soggetti risulta difficile delineare nell’immediato un episodio, un racconto. Cerco di congelare la rappresentazione, suggerendo soltanto con oggetti simbolici. Non amo cadere nella descrizione o nella narrazione.
.
“simulacro“?
Baudrillard definisce il simulacro (eidôlon) una “verità che nasconde il fatto che non ne ha alcuna”. Il lavoro mi aiuta a idealizzare e classificare la collezione di relazioni personali, ordinata ed insensata.
.
Come vivi l’errore, lo comprendi e valorizzi o lo rifug
gi?
L’errore non fuoriesce da una visione ordinata dell’insieme, consiste anzi in una divagazione che permette di sottolineare nella sua differenza l’equilibrio della composizione.

.
In questo periodo storico che ruolo ha, o dovrebbe avere l’arte per te?
L’arte mi permette di avere un forte senso di appartenenza, negando la stessa.
.
[Francesca Pergreffi Gennaio 2012]





Alessandro Baronciani, "Bianco e nero e un colore".

“… Guardare l’oggetto e immaginare e costruirlo dove non lo vediamo è la costante nel lavoro del disegno, penso. Guardare una cosa molte volte vuol dire anche viverla, non si riesce a disegnare una cosa che non si conosce, in questo un buon disegnatore è una persona che si ricorda molti oggetti. In più un fumettista deve trovare modi per identificare degli stati d’animo per poterli disegnare. Non bastano soltanto delle espressioni sul viso per capire la tristezza di un personaggio, alle volte puoi usare anche tutto un paesaggio. Qui poi sta alla sensibilità del disegnatore individuare meglio un sentimento in un scena o in un’azione …” A.B.
Alessandro Baronciani:
È poliedrico: si destreggia in ogni campo, pubblicitario, musicale, editoriale.
È polimaterico: ricorre a qualsiasi supporto, foglio, tessuto, tela, legno, muro, vinile.
È popolare: si potrebbe definire la Pop star del fumetto italiano indipendente.
È immediato: arriva a tutti.
Da quando ha iniziato la sua avventura editoriale disegnando e spedendo per posta storie a fumetti alle persone che si abbonavano, il suo stile si è fatto via via sempre più raffinato.
Un minimalismo di matrice grafica, fatto solitamente di bianchi e neri intensi, e quando compare il colore, di campiture piatte, di linee nette e sintetiche, di tagli cinematografici. Il suo disegno è capace di sintetizzare le suggestioni di Magnus e Raymond Pettibon, dei fratelli Hernandez e dei manga giapponesi, in particolare gli shōjo.
L’universo disegnato di Baronciani è popolato da corpi e volti efebici; eleganti ritratti femminili e maschili, cristallizzati in un’eterna giovinezza che appaiono freschi e immediati, a volte circondati da sfondi, carichi di riferimenti simbolici.
I suoi personaggi sono protagonisti di storie che parlano d’amore, sentimenti, paure nascoste, e poiché ri-prese dalla vita di tutti i giorni piene di rimandi musicali, cinematografici e letterari.
Un esempio su tutti Le ragazze nello studio di Munari, un fumetto definito dall’autore “un metodo, una specie di manuale per ragazzi alle prese con ragazze”; una vicenda dall’intreccio narrativo rarefatto attraverso la quale Baronciani compie un vero tributo a Bruno Munari, realizzando un “libro oggetto”.
I disegni e le serigrafie esposti al Meme sono una serie d’istantanee dell’universo dell’artista, possiamo goderne semplicemente apprezzandone l’espressività e la pulizia del segno oppure cercare di scoprirne le tante storie nascoste, ricomponendo i frammenti narrativi di un racconto per immagini.
[Filippo Bergonzini e Francesca Pergreffi, Dicembre 2011]





Arrington De Dyoniso

Arrington De Dionyso ci propone una carnevalata d’immagini in cui regna il soprannaturale, sono immagini che fuoriescono dallo sfondo bianco con prepotenza e leggerezza, brutalità ed eleganza, infondendoci di misticismo; il tratto sottile e il colore evanescente ci mostrano per contrasto scene sanguinarie, corpi deformi e rituali misteriosi emanando una bizzarra e inquietante atmosfera di grazia e armonia. Le anatomie stridenti bagnate da macchie fluttuanti d’acquerello definiscono uno stile che richiama le sonorità allo stesso tempo sporche e ossessive, melodiche e liriche che Arrington da sempre sperimenta nei suoi progetti musicali.Attraverso una violenta e dirompente vivisezione mistica, Arrington, compie una ricerca sull’esistente abbracciandone ogni aspetto semi-nascosto: l’eros, le relazioni, il desiderio di fuga, la solitudine, l’aggressività, la mostruosità del contemporaneo. Nulla è lasciato al caso, non dobbiamo farci fuorviare da queste apparizioni istantanee e improvvisate, tutto è ben orchestrato e ha un punto di partenza: l’essenza, e un punto d’arrivo: l’esistenza.
Arrington De Dionyso come Arianna tesse il suo filo per allargare il concetto di reale. Un filo che ha come capo la simbologia Azteca, poi s’intreccia con le danze matissiane, strizza l’occhio al diario di Frida Khalo e giunge alla contemporaneità.
È un filo autobiografico, con una forte matrice taumaturgica, ci viene coraggiosamente e generosamente offerto, spetta a noi seguirlo!
[Francesca Pergreffi e Filippo Bergonzini, Aprile 2011]





Ester Grossi, "Jack in the box".

Jack in the box
Si gira la manovella, il motivo suona e alla sua fine il coperchio si alza…
Ed ecco che ironicamente l’universo di Ester Grossi ci fa l’occhiolino.
È un mondo che è saldamente ancorato sia all’emisfero del reale e sia a quello del surreale, non a caso, l’aria che vi si respira ha la fragranza del Realismo Magico.
Gli abitanti che lo vivono si manifestano a noi in maniera dirompente e austera incutendoci quasi timore, ma, al contempo, avvertiamo una vibrazione calda e ammaliante che fa sì che la soglia sia varcata a tutti gli effetti, loro ci tendono la mano e noi ci facciamo condurre curiosi e attenti perché nulla è effettivamente svelato.
È un pianeta composto di linee nette ed essenziali, da pennellate definite e rigorose, da campiture compatte e omogenee intervallate qua e là da piccole sorprese d’inserti di tulle o di pizzo, di motiviwallpapers, di toni elettrici e di tagli ovali.
Elementi per noi rassicuranti poiché, anche se di primo acchito a volte possono destabilizzarci, sono riconducibili al reale e quindi mitigatori del surreale.
Non resta che aprire il coperchio…
Buon Jack in the box
[Francesca Pergreffi, Ottobre 2010]